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Chiosco abusivo con vista sul Kosovo

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Dalle Alpi dinariche alla Tortuga dell’occidente. Un viaggio nel cuore dell’Europa. 

di Marco Ranocchiari

In piena notte al limitare del bosco l’oscurità è quasi completa, brillano solo una miriade di lucciole e, più lontano, due lampadine tremolanti attaccate a un ramo. Stretta nel cono di luce, una piccola selva di lattine per lo più vuote sta in piedi precaria su un tavolo storto, mentre una bottiglia di rakija passa rapidamente di mano in mano. Intorno, le masse scure di un gruppo di commensali che ride e – chi ce l’ha – fa tintinnare i bicchieri.

Quando il vociare si abbassa ci si ricorda del torrente che, superata un’enorme gola nelle Alpi Dinariche, si avvia gorgogliando verso la piana del Kosovo. Da quella direzione, di tanto in tanto, il gestore riappare dalle tenebre brandendo delle bottiglie  appannate. Le apre, le mette sul tavolo senza proferire parola, accenna a un brindisi alzando le sopracciglia prima di incominciare la sua. È un kosovaro dalla faccia triste, anche quando sorride, con il suo liso cappello da baseball, la canottiera e il volto arrossato, scavato dalle rughe. Sua moglie, macedone, è una donna molto più dinamica, dalla risata energica. Ridendo, racconta in serbo-croato la sua storia. Una storia che finisce in sospeso come l’autorizzazione per il loro chiosco, perché i politici che glielo avevano promesso, intascato il voto, si sono rimangiati la parola. Per fortuna che il terreno appartiene al monastero ortodosso poco lontano, protetto ventiquattr’ore su ventiquattro da una pattuglia della polizia, e le sorelle gli hanno dato un permesso informale. La rakija la distillano loro, dalle prugne che il sole spacca e scolorisce come fa il tempo alle facce dei santi, negli affreschi bizantini sotto cui pregano ogni santo giorno.

Al tavolo siede un’estemporanea riunione che rappresenta per caso quasi tutti i Balcani, bulgari, serbi, albanesi di Kosovo, Macedonia e Albania, croati, montenegrini.

C’è anche un cane che sonnecchia sotto una sedia.

“Non è di qui, altrimenti sarebbe più aggressivo”, dice il gestore.

Ho imparato da tempo ad apprezzare l’amaro umorismo balcanico, ostentato con un certo orgoglio soprattutto davanti a un occidentale. Il gioco continua. Viene fuori che il cane è croato, e quindi “è civilizzato”, “ha il passaporto europeo”. A lui non serve il visto. Comunque, continua il kosovaro, “i cani più grossi sono i politici. Da noi sono enormi, modestamente. Questo qui deve essere venuto a imparare, avrà vinto una borsa di studio”.

Alpi Dinariche

Le Alpi Dinariche tutto intorno, di giorno, si innalzano poderose e selvagge, con picchi calcarei ammantati di boschi, popolati da linci e orsi. L’isolamento, il sottosviluppo, l’emigrazione e la guerra hanno consegnato al ventunesimo secolo una montagna di un’altra epoca, dove i pastori passano l’estate all’alpeggio proprio come i loro antenati, dormendo in capanne, mungendo le vacche a una a una dentro secchi di legno. Poche strade sterrate che si perdono in infiniti versanti e nei brulli pianori, dirette a qualche cimitero solitario di montagna, riconoscibile da una bandiera albanese con l’aquila sfilacciata. All’orizzonte, screziate di neve, le vette dell’Albania sembrano vicinissime nell’aria limpida.

Nelle cittadine a valle è tutto il contrario, il Kosovo ribolle: innumerevoli bambini che si affacciano alle finestre di case tirate su con le rimesse della diaspora e mai finite, che urlano, irrompono nelle strade rubando la scena ai taxi, alle BMW tirate a lucido a e alle più modeste Fiat da lavoro;  si fanno spazio tra ragazzi attaccati allo smartphone e anziane velate che ondeggiano sotto il carico di buste stracolme, fanno lo slalom tra abiti da sposa colorati montati addosso a manichini truccati,  tra zingari, negozi di frutta secca tostata e cani randagi.  Hanno imparato l’inglese dai soldati americani e se la ridono, d’estate, con i loro cugini che vivono in Germania o in Norvegia e tornano per le vacanze, fanno amicizia con gli stranieri.Alpi dinariche

Capitale

Pristina è ancora diversa. Ad arrivarci in un pomeriggio piovoso, si ricava l’impressione di essere finiti in un groviglio indistricabile e grigio da cui uscire sarà difficile, con le strade piegate in imprevedibili saliscendi tra cemento, capannoni e cortili, curve a gomito e ripetitori, e un’atmosfera pesante che è in parte una nuvola di smog e in parte una condizione psicologica. Ma come accade spesso, non bisogna fidarsi delle prime impressioni – basta perdercisi per pochi minuti e si scopre ben presto un’aria familiare e giocosa.

Nelle verande dei bar si ascolta musica pop mentre i camerieri portano una dopo l’altra tazze di espresso; l’inglese è buono, il tedesco è diffuso, e larghi sorrisi accompagnano la notizia che siete italiani. Nelle vie del centro è il consueto caos di fruttivendoli e macellerie, ma il grosso della vita in città ruota intorno agli occidentali. Una notte, per arrivare a una festa di expats – giovani che lavorano per le ambasciate, all’Eulex, negli aiuti umanitari o nelle scuole di inglese – devo chiedere a un vigilante americano, poi a un bambino che mi fa infilare in un portone senza numero di una strada senza nome, e poi in un androne sospetto, fino a una porta socchiusa. Mi ritrovo in un salone finemente arredato dove ragazze straniere ci sorridono per nulla sorprese; in fondo, una grande portafinestra spalancata apre uno squarcio sul buio. C’è una terrazza, gli invitati chiacchierano amabilmente seduti per terra, sorseggiando cocktail ghiacciati.20160701_225027_

Davanti a loro brilla una vista mozzafiato sui grattacieli della città che si schiudono in basso intorno al centro e si arrampicano fantasmagoricamente sulla collina.

“Pristina è cresciuta in fretta appena dopo la guerra”, mi dice il tedesco che mi ha fatto imbucare alla festa, arrotolandosi una sigaretta. “Nessuno sapeva come si costruisce una capitale, così ognuno ha pensato a fare da sé”. Anarchia, euforia, soldi di dubbia provenienza. “Ma anche tanto entusiasmo. Si può dire quello che si vuole, ma questo è un posto vivo, ed è bello essere qui oggi, la gente è giovane e crede che le cose possano andare meglio”.

Annuisco diplomaticamente, ma in testa mi frullano un mucchio di cose. Penso alla frontiera e al gioco di ruolo del passaporto (è vero che bisogna pregare il poliziotto per non farselo timbrare? Ognuno mi dà una risposta diversa), agli ottanta paesi che non riconoscono il neonato paese balcanico, al fatto che non batta moneta, che sventoli una bandiera improvvisata con una pacchiana carta geografica; o che teoricamente il suo presidente potrebbe essere prelevato di forza  e rinchiuso all’Aia da un giorno all’altro. Però c’è questa familiarità con l’occidente e la sua valuta – l’euro adottato ufficiosamente, le filiali degli ipermercati che vendono a chi se lo può permettere, cioè agli occidentali, parmigiano, birre d’Abbazia, Chianti, prosciutto di Parma. L’economia marcia molto più velocemente della legge, lo sapevo già, ma qui fa impressione. Pristina sembra un porto franco, una Tortuga dell’occidente e del capitalismo.

Pristina. Foto di Polina Malinina

Prizren

Eppure i volti straordinariamente cordiali, i modi rilassati di certi frequentatori dei caffè, raccontano di una vita parallela che sembra fregarsene di tutto questo, sospesa in una dimensione inafferrabile. E se c’è un posto dove questa proprietà è inconfondibile questo è senz’altro la vecchia Prizren.

Qui il tempo scorre più dolcemente che nel resto d’Europa, come l’acqua che scroscia in minuscoli canali sul marciapiede, indugia tra le gambe dei vecchi ossuti con il copricapo tradizionale, il qeleshe, ruota in un minuscolo mulino davanti a un caffè e si tuffa nel torrente, proseguendo poi verso ovest, sotto le arcate del ponte antico.

A sinistra del fiume, contro gli spioventi immersi nel verde delle case ottomane e la fortezza sulla collina, domina l’elemento verticale: guglie di minareti, cupole di moschee, campanili di chiese ortodosse. A destra la vita civile, i negozi, il mercato, le verande dei caffè.

Ma nei Balcani niente è mai solo quello che sembra. Proprio al centro di Prizren, la cattedrale ortodossa di Nostra Signora di Ljeviš è stata data alle fiamme. Non oggi, ma neanche ieri: nel 2004, sotto il naso della Nato e dell’Onu, durante le sollevazioni che costrinsero alla fuga migliaia di serbi; il giorno che gli albanesi, da popolo martire, si risvegliarono all’improvviso a vestire anche la parte del carnefice. Oggi è una bella chiesa che riesce quasi a sembrare antica, ma nelle foto, appese su un lato nascosto alla strada, appaiono i moncherini sinistri, resti di travi annerite dalle fiamme della rivolta. I poliziotti sonnecchiano davanti all’ingresso dell’edificio ricostruito, fedeli al fumoso tempo balcanico, mentre cartelli minacciosi ricordano che che ogni tentativo di danneggiamento sarà perseguito secondo la giurisdizione penale, perché il Kosovo è una repubblica democratica e multiculturale.

prizren

Prizren

Passato, presente

Sarà, ma non bisogna essere un genio per capire che i segnali sono contraddittori, come tutto in Kosovo. La celebrazione dell’Uçk è capillare, dalla toponomastica della capitale alle statue e alle bandiere sui crocevia solitari nelle campagne. Perfettamente controbilanciata, ma più illividita dalla sconfitta, la retorica delle enclave serbe, separate in casa, con le statue dei suoi eroi medievali e i check-point su ponti che dividono in due la città di Mitrovica.

La gente comune, però, sembra voler pensare a ben altro che alle tante ferite non ancora rimarginate. Senza bisogno di scomodare il passato, d’altronde, anche il presente non è certo avaro di problemi: la povertà, innanzitutto, non molla mai la presa. Due kosovari su tre sono giovani, e due giovani su tre sono disoccupati. E si tratta di una generazione istruita, cresciuta a contatto con l’Occidente. Ma l’Occidente, ai kosovari, tiene ancora le porte sbarrate – la liberalizzazione dei visti arriverà, prima o poi, intanto si aspetta. Nel frattempo i contingenti stranieri si sfoltiscono, e con la loro partenza l’economia traballa. L’unico settore che sembra andar bene è quello delle tangenti: recentemente le accuse hanno intaccato anche la reputazione di istituzioni internazionali, compresa l’Eulex, cioè la missione europea che dovrebbe guidare la transizione verso lo stato di diritto.

peja

Peja

Questo è quello che mi raccontano, e che leggo, ma l’impressione è un’altra: saranno le facce giovani, o il fatto che senza volerlo incontro gente particolare, che si dà da fare in un paese in gran parte ancora da inventare, in cui tutto sembra possibile. C’è chi lo vede nella prima partecipazione alle Olimpiadi, chi nelle opere di cineasti promettenti. Io l’ho visto nella locanda improvvisata lungo il torrente ai piedi delle Alpi Dinariche.

Il cane sonnecchia incurante del kosovaro che gli dà dell’apprendista di aggressività. Intorno, i commensali stanno facendo un esercizio di scrittura creativa. Ognuno inventa un pezzo di storia, si scambia il foglio con il vicino, e continua quella dell’altro. Nascono racconti ingarbugliati, esilaranti, grotteschi e inverosimili, scritti in un inglese impossibile con grafia incerta nella luce traballante della notte. Ciascuno ci mette del suo, delle loro azioni di militanza e di volontariato in questa sperduta contrada montana – e le montagne selvagge, i loro orizzonti seghettati, i loro animali sfuggenti e perciò solo immaginati si inseriscono di forza nella trama.

Nel Prokletije, letteralmente “montagne maledette”, dove attivisti e organizzazioni non governative vogliono costituire un parco transfrontaliero condiviso con Montenegro e Albania, si trovano così a scorrazzare personaggi effimeri e irripetibili, capaci di azioni ridicole e contraddittorie, ma in fondo unite da una visione comune. Portano le esperienze degli scienziati europei venuti a monitorare la lince balcanica, e dei kosovari che hanno ceduto al fascino di questo simbolo di una wilderness mai del tutto perduta, che l’hanno portata nelle piazze e nelle scuole; delle bestemmie di  un vecchio inglese, istruttore di sminamento, che inveiva contro i suoi connazionali il giorno del referendum sulla Brexit; delle infinite discussioni attorno al fuoco sulla jugonostalgia, condite, talvolta, dal vecchio inno Hej Slaveni strimpellato con la chitarra; dall’Europa che mostra ancora un lato buono finanziando progetti di un certo tipo, come quello che ha portato a riunirsi, al confine con la Macedonia, giovani provenienti da aree montane e remote a parlare di pace e di possibili vie sostenibili alla modernità.

Quando è il momento di leggerle, c’è di che slogarsi le mascelle dal ridere. Le lucciole intorno, il cane e il torrente riaffiorano in continuazione, nelle coniugazioni più inverosimili – corrieri di droga, ballerine in un locale di Las Vegas, funzionari sulle terrazze di Pristina. Ma come un mazzo di carte, i fogli su cui scrivono queste storie si assemblano secondo un disordine circoscritto da regole semplici e condivise – sarebbe forse retorico esplicitarle, la voglia di prendersi in giro l’un l’altro e di immaginare futuri diversi. Futuri, si intende, liberi dall’emigrazione e dal nazionalismo, dalla distruzione del suolo e dell’aria. Sia come sia, la serata volge al termine ed è il momento di tuffarsi nel buio. Il vecchio e sua moglie restano a guardare i commensali finché non spariscono, lui fa un sorriso triste con gli occhi nascosti dalla visiera, lei gli dice qualcosa. Poi mettono via le bottiglie e puliscono il tavolo; quando il cielo inizia quasi a schiarire, la lampadina tremolante si spegne e non ci sono ormai più nemmeno le lucciole. Non visto da nessuno, il torrente scroscia verso la piana del Kosovo.

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Viaggio a Sarajevo, mille volti una sola identità

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di Roberto Bruccoleri

Ci son luoghi a noi così vicini ed allo stesso tempo resi lontani da coloro che costruiscono le nostre realtà con il flusso d’immagini e notizie, e che s’arrogano del diritto di imporci barriere o ponti, secondo i loro interessi e le direttive a loro imposte. Ci sono gli Anni novanta e l’Unione Europea, quell’organizzazione nata come strumento di pace e che non dimentica mai di ricordarci che da settant’anni non v’è alcun conflitto nel continente dove viviamo, che ciò non era mai avvenuto nei secoli passati, che questa è una delle più grandi conquiste del nostro tempo. Ho sempre creduto in ciò e sono sempre stato un fiero sostenitore di questi principi di unità e fratellanza, non avevo mai realizzato però che, in un paese a noi confinante e nel cuore dell’Europa, agli inizi degli Anni novanta, si è scatenato l’inferno: pulizie etniche, genocidi, stupri di gruppo, interi villaggi e città rase al suolo, deliri disumani che pensavamo che dopo la seconda guerra mondiale non dovessero mai più accadere, almeno da noi.

E poi la storia di una città unica, Sarajevo, ed il suo assurdo assedio, durato più di tre anni, il più lungo della storia moderna, dove cinquecento mila persone non potevano muoversi ed hanno vissuto senza acqua, luce e gas, con i cecchini serbi appostati sulle colline circostanti con l’ordine di sparare a vista, più di diecimila morti e cinquantamila feriti alla fine, oltre ad una popolazione sfregiata nella sua identità per tempo immemore.

Non si può parlare di Sarajevo senza ricordare per prima cosa il suo più recente passato, la sua straordinaria resistenza, l’immenso coraggio dei suoi cittadini, che nonostante le bombe e la distruzione hanno continuato a far andare avanti le scuole, i teatri, i legami e gli affetti, la propria identità di città multietnica. Chiesi ad una guida “quali sono i quartieri serbi della città?” e lui mi rispose “non hai capito, qui non viviamo insieme, qui conviviamo; nello stesso pianerottolo di un palazzo vive il musulmano sposato con la cattolica ed il serbo con la donna ebrea, qui essere di una religione o l’altra è come nel tuo paese dire che uno ha i capelli rossi ed uno castani.” Ecco, questo è lo spirito di Sarajevo, ed anche se i suoi anni più crudi lo hanno inevitabilmente alterato, ciò permane nella propria cultura, nella propria identità. Diceva Jovan Divjak, eroe militare, di origine serba, della resistenza sarajevese durante l’assedio: “L’identità non può mai essere persa poiché viene conquistata ogni giorno a contatto con gli altri, e s’arricchisce della storia, della cultura e della lingua di ognuno.”

Sarajevo

Sarajevo

Non riesco a tenere a bada questi sentimenti, seppur la città è stata nella sua quasi totalità ripresa e ripulita, basta cercare su google immagini di Sarajevo sotto l’assedio per rendersi conto di cosa fosse diventata, un’ immensa distesa di palazzi crivellati e carcasse di macchine usate a mò di trincee, le ferite nell’animo della popolazione sono ancora ben visibili, la loro paura è ancora toccabile, i loro ricordi sono ancora freschi, la città pullula di memorie di quegli anni cupi, paurosi, dove lo scoppio delle bombe era il rumore più frequente che scandiva il passare delle giornate. Eppure la gente ha resistito, nelle condizioni di totale disumanità e di abbandono da parte di chi doveva tutelare la pace nel continente, ritrovando nel calore dei propri concittadini la forza per credere nel futuro. “E’ necessaria la sventura per scavare certe misteriose miniere nascoste nell’intelligenza umana; serve la pressione per fare esplodere la polvere” parole di Alexandre Dumas di metà Ottocento, dimostrano come al solito che i classici ci vengono incontro per comprendere il tempestoso presente. Un dato che mi ha impressionato è il bassissimo numero di suicidi verificatosi durante gli anni dell’assedio, a dimostrazione di come il popolo fosse pronto a difendere la propria città senza timore, senza paura di morire, pur di far proseguire la storia di una città magica.

Eh sì, questa città, ove i minareti svettano nel meraviglioso centro storico ottomano Baščaršija, è uno scrigno di storie secolari e di popoli che si sono susseguiti, quattrocento anni di dominazione turca ne han plasmato la forma architettonica, si ha l’impressione di essere dentro una teca urbana con le meravigliose montagne che la circondano a protezione della sua unicità. Per gli ottomani era uno dei principali crocevia tra Istanbul e l’occidente, nel cinquecento v’erano già cinquanta alberghi in città, a dimostrazione dell’importanza strategica e commerciale del luogo, i visitatori, per i primi tre giorni di soggiorno, avevano tutto pagato, il soggiorno, l’hammam e la stalla per i cavalli, era una forma già evoluta di accoglienza, questo perché erano commercianti e portavano benefici a tutta la comunità.

Cimitero bianco

Cimitero bianco

Ed i cimiteri, quanto sono belli i cimiteri musulmani, per la città se ne vedono a dozzine sparsi sulle montagne, alte pietre di un bianco vivo ricordano i defunti in una forma quasi di allegria, la gente ci va a fare due passi come noi potremmo fare sul lungomare, la morte vista non come un momento oscuro ed esoterico, ma come una parte “viva” e della vita, come una luce che esalta maggiormente lo splendore della Gerusalemme d’occidente, perché sì, qui chiese ortodosse, chiese cristiane e sinagoghe si susseguono alle moschee, ai minareti, perché qui vedi una reale multietnicità, bellissime donne con gli occhi azzurri e la pelle chiara col velo ad avvolgere il loro capo, uomini musulmani con barba maomettiana che tengono per mano i figli di un biondo lucente, senti il richiamo alla preghiera degli altoparlanti dei minareti mentre passi di fronte la Chiesa serbo- ortodossa degli arcangeli Gabriele e Michele, tra le più grandi di tutti i Balcani. Questo è il melting- pot, non le New York, le Parigi, le Londra, dove le minoranze vivono nei loro quartieri-ghetto e l’integrazione è solo un pretesto per una forma di sfruttamento delle parti più deboli della società. La città nel 1867 fu conquistata dagli austriaci, che a loro volta hanno dato la loro impronta architettonica, armonizzandone la forma rispettandone il passato, c’è uno “spartiacque” nel corso principale, guardi a destra e ti sembra il medio-oriente, guardi a sinistra e ti sembra una piccola Vienna, è pura estasi per l’occhio, per la bellezza del mondo, per la magia della storia.

Qui si vive con poco, quattrocento euro al mese è lo stipendio medio, la vita è davvero molto economica, quasi non si crede di essere nel centro dell’Europa, v’è ancora molta povertà, spesso guardavo la gente che beveva un caffè, o semplicemente interloquiva tra di loro, e notavo che a tanti di loro mancano dei denti, che non possono permettersi di curare; mentre sorseggiavo un caffè in locale, una donna, che poteva avere l’età di mia madre, capendo che eravamo visitatori, si è avvicinata sorridendo e voleva venderci dei capi di abbigliamento appena comprati al mercato di fronte, questo fatto mi ha colpito e m’ha fatto riflettere sul valore che diamo alle cose, alla nostra vita, ad i beni che acquistiamo. E poi “quel” mercato, Markale, Markale 1 e Markale 2 meglio rimembrati dagli esperti di geo-politica, ricordo quelle stragi, avevo dodici anni ed alla televisione passavano quelle immagini, mia madre era sconvolta, se la prendeva con la malvagità degli uomini, con la loro depravazione, io ero piccolo, non capivo, ma intuivo qualcosa, qualcosa che avrei compreso davvero solamente venti anni dopo, quando ho attraversato quel mercato, affollato della gente del popolo, quella gente quasi invisibile alle persone colte, quella gente che quando la guardi ti sembra ancora di vedere un documentario ormai vecchio di quaranta anni sul comunismo dell’entroterra bulgaro, era proprio quella gente lì, quella gente che nel nostro immaginario rimane sempre un po’ in chiaroscuro, vestita con tessuti grevi e pesanti, lontani secoli dalla globalizzazione che viviamo, dalle mode, dalla conoscenza trasversale a cui abbiamo accesso oggi. Markale, gente semplice, povera, pasoliniana, bombardata e dilaniata due volte nel giro di pochi mesi, una strage che, grazie alle immagini divulgate dalle televisioni di mezzo mondo, fece attivare anche le nazioni unite ed i loro caschi blu, mise sotto gli occhi di tutto il pianeta la brutalità e malvagità di ciò che stava passando in quegli anni ad un’ora di volo da casa nostra, nel cuore pulsante del continente “devoto” alla pace. Karadizc, l’allora capo dei serbi di Bosnia, disse che i “turchi”, sì li chiamava così i musulmani di Bosnia, quell’attentato se l’erano fatti da soli per far intervenire le forze internazionali, arrivò anche a dire che i sarajevesi avevano inscenato una performance teatrale andando a prendere i morti all’obitorio e buttarli lì in mezzo al mercato per far intenerire i media. Karadzic oggi sta scontando una condanna al Tribunale dell’Aja (i sarajevesi lo chiamano “Albergo dell’Aja”) per genocidio e crimini contro l’umanità, nel mentre scrive poesie per bambini che vengono pubblicate in Serbia e viene descritto come un’eroe dal suo popolo. Ma questo è un altro capitolo, richiede altre e più profonde riflessioni, altra sede d’analisi.

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La città comunque offre tanto da vedere, almeno tre giorni pieni, un paio di tour guidati sono più che raccomandati, si mangia benissimo e tutto costa molto poco, la città è sicurissima, la gente è molto cordiale e tutti parlano l’inglese abbastanza bene, ma è importante informarsi prima di andare sul recente passato della città, la sensibilità della popolazione è molto legata alle tematiche della guerra degli anni novanta. Assolutamente da non perdere il tunnel sotto l’aeroporto, con una guida è meglio perché ne spiega i geniali dettagli della costruzione sotto l’assedio e dell’uso che se n’è fatto, e la Vijecinca (il Comune) che era l’antica biblioteca della città, dove in tre giorni di bombardamenti mandarono in fumo quasi l’80% del loro intero scibile, un vero e proprio culturicidio effettuato dai serbi al fine di distruggere l’identità del popolo. Fondamentale anche una breve visita al punto dove l’anarchico serbo Princip nel 1914 assassinò l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria facendo scoppiare la prima guerra mondiale.

Sarajevo è oggi una città sospesa tra un recente drammatico passato ed una voglia di entrare in Europa, la memoria è la prima pietra per costruire il futuro, la città è piena di monumenti che ricordano a tutti di non dimenticare se si vuol costruire un avvenire prospero e pacifico, ma i tempi non sono mai semplici in questa parte del mondo, come diceva la scrittrice Clara Uson nel suo libro, indicato in calce, sulla guerra nei paesi dell’ex-Yugoslavia “…il passato è sempre presente nei Balcani, le epoche si confondono e non esiste oblio.”

 

Letture consigliate:

  • – “L’ultimo rigore di Faruk”, Gigi Riva, Sellerio
  • – “Sarajevo Mon Amour”, Jovan Divjak, Infinito edizioni
  • –  “La figlia”, Clara Uson, Sellerio
  • –  “Maschere per un massacro”, Paolo Rumiz, Feltrinelli

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Malta, Renzo Piano e la pietra calcarea

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Il Parlamento realizzato a Valletta da Renzo Piano

di Elena Zappi

Quando metti piede a Malta e alzi la testa per scrutare l’orizzonte vieni inebriato da una luce gialla. No, non è il sole che ti abbaglia, sono le isole stesse che risplendono di luce propria, perché la pietra con cui viene costruita ogni cosa qui ha questo potere.

La pietra maltese, o pietra calcarea, è il “marmo” locale utilizzato per dare vita a case, musei, strade, torrette di avvistamento, ricoprendo ogni superficie abitata dell’arcipelago. Resistente e versatile, questa materia prima ha infatti le caratteristiche necessarie per poter essere impiegata nelle costruzioni: mantiene le case fresche in estate e trattiene il tepore al loro interno nei mesi invernali, colorando di oro l’ambiente circostante. La pietra maltese è luce.

Questo accade da millenni, e infatti non mi sono stupita quando ho visitato per la prima volta il sito archeologico di Ġgantija a Gozo. Pensate, proprio su quest’isola vennero costruite tra il 3600 e il 3200 a.C. le strutture autoportanti più antiche al mondo, persino precedenti ai famosi megaliti di Stonehenge, usate come templi.

Si racconta che gli abitanti di Malta in passato credevano che fossero stati costruiti da alcuni giganti (da qui il nome del sito) per via degli enormi blocchi di pietra con i quali vennero assemblati, che in certi casi superano i cinque metri di lunghezza e pesano oltre cinquanta tonnellate. Pur non esistendo fonti scritte sulla loro origine, diversi studi protendono a ritenerle strutture religiose, perché posizionate in un punto strategico dell’isola dove al solstizio il sole colpisce e illumina l’interno.

Mentre passeggio osservo i resti di quelli che sembrano altari sacrificali, attraverso stanze per la venerazione di culti antichi e sul pavimento scorgo dei fori, forse usati per far defluire il sangue degli animali offerti, mentre sulle pareti si vedono ancora le tracce di una tintura rossa ormai sbiadita.

Quello che più mi colpisce è la loro posizione così isolata e in cima a una collina dalla quale si domina gran parte di Gozo e da dove in lontananza, quando le giornate sono limpide, s’intravedono le vicine coste della Sicilia.

Appoggio le mani sui lastroni scaldati dal sole, sono pietre millenarie che per certi versi mantengono immutata la loro composizione: solo il colore e la forma cambiano, modificati lentamente dagli agenti atmosferici. Gli angoli sono sempre più levigati e su un solo masso si posso individuare oltre dieci sfumature di giallo.

La cava di pietra maltese sull'isola di Gozo attiva dal 1972.  Foto di Valentina Diaconale

La cava di pietra maltese sull’isola di Gozo attiva dal 1972.
Foto di Valentina Diaconale

Estratta oggi in un’unica cava sull’isola di Gozo attiva dal 1972, una variante della stessa pietra è diventata anche l’elemento simbolo del Valletta City Gate, l’opera di Renzo Piano da molti considerata un punto di congiunzione tra l’architettura del passato e le sperimentazioni urbane più contemporanee.

Accompagnata da una guida d’eccezione, David Felice, architetto dello studio AP Architecture Project, che collaborò con Piano nella realizzazione del lavoro, passeggio in una della aree più importanti della capitale.

Il progetto comprende la costruzione del nuovo Parlamento, il recupero delle rovine del Royal Opera House e l’accesso alla città di Valletta. L’area aveva, però, diverse problematiche: al di là delle mura e dei resti abbandonati dell’Opera, questa zona cittadina aveva infatti perso la sua identità e l’intento era di restituirgliene una senza intaccare il passato. La sfida più grande fu, dunque, non snaturalizzare l’ambiente ma riuscire a mantenere un legame con la sua storia, amalgamando tra loro gli elementi estranei al luogo.

Mi racconta David che gli abitanti inizialmente non ebbero una reazione positiva al progetto.

Mettetevi nei loro panni: si tratta di persone che, nutrendo un profondo rispetto per la loro città e il suo retaggio storico, percepivano l’intervento del prestigioso archistar quasi come un’imposizione dall’alto.

Io non sono maltese, ma passeggiando in questa nuova area urbana ho letteralmente perso la testa: a mio avviso Renzo Piano ha davvero trovato la chiave giusta per realizzare un progetto in grado di accontentare tutti.

La scelta di utilizzare la pietra locale si è rivelata particolarmente appropriata, perché ha permesso di stabilire un dialogo tra gli edifici antichi, le nuove costruzioni e l’ingresso fisico e simbolico della città, diventando il comune denominatore di tutto il lavoro.

Il calcare giallo di Malta nella sua variante più compatta non è stato, tuttavia, usato in maniera banale o semplicistica. Nell’Opera House si è cercato di riproporre tecniche vicine alla tradizione per colmare i vuoti lasciati dalla mancanza delle pietre originali; nel Gate sono state impiegate lastre di grandi dimensioni per rivestire le mura d’ingresso e, infine, nel Parlamento la pietra ha subito una lavorazione più pregiata.

Il guardiano dei templi di Ġgantija riposa all'ombra di un palmizio.  Foto di Valeria Ribaldi

Il guardiano dei templi di Ġgantija riposa all’ombra di un palmizio.
Foto di Valeria Ribaldi

Mentre cammino sotto i suoi portici e ne osservo geometrie e tensioni, David mi spiega che in questo edificio il “marmo maltese” ha anche l’importante ruolo di filtrare la luce che penetra all’interno regolandone la temperatura. La definisce una parete attiva in quanto le alette frangisole sono state posizionate in base all’inclinazione dei raggi solari ma rimangono perfettamente integrate al resto della facciata.

A parer mio il risultato è senza dubbio meraviglioso: Renzo Piano è riuscito a centrare a pieno la sua idea modellando il possente edificio del Parlamento come se fosse un masso eroso dal vento. Proprio come è accaduto nel corso di millenni ai templi di Ġgantija.

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Love in the City. Come Berlino ama

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di Diletta Bellotti

note del viaggiatore:

Non sono un’economista e dunque semplificherò, forse in maniera eccessiva, il discorso economico con lo scopo di spiegare dei fenomeni sociali.

 

Dalla prima lezione di Economia che ho seguito, mi sono resa conto di quanto i suoi principi si possano riscontrare in moltissimi aspetti della realtà. Una delle ultime epifanie è avvenuta non troppo tempo fa tra le strade di Friedrichshain. Ero con la mia cara amica Chantal ed eravamo appena uscite da un locale. Era domenica notte.

In microeconomia, impariamo di come gli attori economici massimizzino la loro utilità nel fare acquisti. Con il termine utilità, s’intende la soddisfazione derivata dal consumo di un certo prodotto. Con massimizzare s’intende una situazione in cui, per esempio, al supermercato compreremo il miglior succo all’arancia; il migliore secondo le nostre preferenze. Gli economisti ci dicono inoltre che gli attori economici sceglieranno sempre il prodotto migliore viste le proprie risorse economiche. In queste scelte, sono considerati essere razionali.

Tornando al discorso di Berlino-Est, c’eravamo io e Chantal che mangiavamo un Falafel quando lei ha iniziato a raccontarmi delle sue fiamme amorose. C’era qualcosa che mancava nei rapporti interpersonali a Berlino, diceva lei. Sia io che lei eravamo due Berlinesi acquisite e venivamo da due paesi diversi dell’Unione Europea. Potevamo dunque, confrontare la nostra esperienza con quelle passate. “A Berlino,” diceva lei, “sembra che le persone cerchino di meglio mentre ti si fanno,” poi continuava, “come se guardassero altrove mentre ti baciano.” Capivo esattamente ciò che intendeva. La parte affascinante è che anche io e lei avevamo avuto in passato un qualche tipo di relazione che era scivolata via in qualche modo. Forse proprio ed esattamente per ciò che stavamo discutendo in quel momento. Eravamo state vittime ignare, e solo in quel momento ce ne rendevamo davvero conto.

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Due domande sorsero spontanee. Il capitalismo e i suoi principi di mercato avevano l’egemonia sulle relazioni amorose? Se sì, perchè ci eravamo lasciate comandare?

L’amore è prima di tutto una scelta e sembra ovvio che scegliamo ciò che è meglio per noi: ciò che crediamo essere meglio. Questa ricerca sfrenata, alimentata da Tinder, Wapa e Grinder, rendeva tutto più surreale. Senza dubbio allora, applicavamo alle nostre scelte amorose ciò che avevamo inconsciamente imparato dal mercato. Ma perché? Certamente le nostre libertà si sono moltiplicate. Forse ci piace esasperare le nostre libertà nell’oppressione della libertà altrui. Nel far sentire la loro libertà sottomessa alla libertà degli altri. Quindi meno liberi. Più oppressi. Per far sentire gli altri più insicuri e meno menomati nei rapporti interpersonali. Una bottiglia di succo all’arancia non si prende a male se scegli la bottiglia proprio accanto a lei. Nelle relazioni umane, ci siamo forse adattati ad una specie di mancanza di rispetto nell’amare gli altri. Questo atteggiamento da un lato include, dall’altro esclude. E’ forse un’interpretazione malfatta dell’amore libero.

Berlino è speciale per un numero infinito di ragioni, ma la più lampante è sicuramente la sua eccezionalità come metropoli. Berlino è mondo e paese. E’ nascostamente mondo e nascostamente paese. E’ in un eterno stato di rinascita e decadenza, che si affiancano, ma non si escludono. Rinascere e decadere dovrebbero essere dei movimenti, ma a Berlino sono movimenti immobili e silenziosi. Berlino ti assorbe e ti risputa fuori diverso. A seconda di quanto puoi dare alla città, lei ti risputa vuoto o super-vuoto. E’ Berlino stessa in fondo, che ti tratta come i Berlinesi trattano i loro amori. Berlino ti ama finché la fai apparire migliore.

 

Love in the City – How Berlin Loves

Note of the traveller:

I am not an economist and therefore here the economic discourse will be oversimplified in the sake of an explanation a social phenomena

Since I had the first class of Economics I realized how crazily its principles apply to such a wide number of situations. One of the latest epiphany occurred not too long ago around the streets of Friedrichshain just out of a club at late Sunday night with my dear friend Chantal.

In economics, one learns that economic actors, that is all of us that purchase any kind of product on the market, maximize their utility. By utility is meant the satisfaction derived by the consumption of a certain good. By maximize is meant that when, for instance, we go to the supermarket we will get the best (best according to our preferences) package of chips with the money we have. Economists tell us that economic actors will always get the best they can spending the less they can. They are assumed to be rational in these choices.

Going back to East-Berlin, Chantal and I were eating a Falafel when she started telling me about her lovers. There was something it was missing, she argued, in Berlin dates. Being both acquired-Berliners and from two different countries of the EU, we could compare the situation with previous experiences. “In Berlin” she said “it seems that people are looking for something better while making out with you”, she continued “as they turned their eyes to that girl behind you while they are kissing your lips”. I felt her. The fascinating part is that we also used to have a kind of love affair which blew up somehow and maybe exactly for the reason we were just in that moment acknowledging. But we avoided talking about us: the concept was applying to any relationship we had since we moved to that city.

Two questions came to our minds: Did capitalism and its market principles applied to love? If yes, why did we conform with those?

Love is first of all a choice and seems natural that we choose what is better for us: what we feel is better for us. The unstoppable research, powered by Tinder, Wapa and Grinder, made all surreal. Indeed, we surely applied what we unconsciously learned from the market to our love choices. Why did we? For sure, the conception of freedom we hold has broadened. We like to exacerbate our freedom in the unfreedom of others. In making them feel insecure and unloved so that we can feel secure and loved. A bottle of orange juice does not stress out because you chose another brand. In human relations, we conformed to a sort of disrespect in loving the others that is comprehensive and exclusive at the same time. We misinterpreted what the pioneers meant with free love.

Berlin is special for a number of reasons, but the more clear one is its exceptionality as a metropolis. It is a city in an eternal status of decadence. Decaying should be a movement, but Berlin is somehow still. It absorbs you and spits you out changed. Depending how much you had to give the city you found yourself empty or emptier. Berlin itself, in the end, treats you as Berliners treat lovers. Berlin loves you as long as you make her appear better off.

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4 località da visitare in Puglia in un weekend

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Uno scrigno che non finisce mai di riservare sorprese. Ecco le località da visitare in Puglia in un Weekend

Se oltre 3 milioni di turisti in un anno hanno scelto la Puglia e nello stesso periodo le presenze hanno superato i 13 milioni, il motivo non risiede solo nelle splendide spiagge e nel clima piacevole di questa regione, bensì nell’armonia unica che lega i tesori della natura alle opere dell’uomo e alla tradizione dell’ospitalità, un connubio che fa innamorare tantissimi viaggiatori da tutto il mondo.

Per raccontare tutto questo è necessario scegliere delle tappe che possano rappresentare alcuni volti della Puglia, per questo mi sono affidato ai consigli dell’Hotel Barion, un 4 stelle con vista sul Mar Adriatico e, alle spalle, la città di Bari.

Lo staff esperto in itinerari, percorsi turistici e soprattutto grande conoscitore dell’entroterra pugliese, mi ha suggerito 4 località speciali che ogni turista dovrebbe vedere.

 

La Riserva Naturale di Torre Guaceto

Torre Guaceto, riserva Naturale. Credits: Alessandro https://flic.kr/p/4cpS2v

La prima parola che mi viene in mente associata alla Puglia è natura: indomita, strabiliante, ricca di colori. La Riserva Naturale di Torre Guaceto è un perfetto esemplare di tutto questo, in virtù dei tre ambienti che ne fanno parte, cioè la macchia mediterranea, la zona umida e il litorale (premiato con la Bandiera Blu nel 2016).

Per raggiungere l’area protetta si può prendere l’auto o il treno e ci si può rivolgere al Centro Visite Al Gaw-sit di Serranova per approfondire la storia della Riserva.

Il Centro, infatti, dispone di corner interattivi che forniscono informazioni sulle specie che abitano l’area e sui reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo che sono esposti al suo interno.

In questo Centro si trova anche una sala di proiezione dove si assiste a una serie di video sulla cultura popolare pugliese ed è possibile prenotare visite guidate nella Riserva, che si estende per circa 1200 ettari.

Riguardo all’Area Marina, la bellezza dello scenario paesaggistico e la varietà del tratto costiero, in parte roccioso e in parte sabbioso (attorno al Lido Punta Penna Grossa, dove ci si può anche fermare a mangiare grazie agli ottimi servizi di ristorazione) le hanno fatto conquistare il certificato di eccellenza di Tripadvisor, un premio che sottolinea l’unicità di questa meta.

Per informazioni sulle visite consiglio di visitare il sito ufficiale

http://www.riservaditorreguaceto.it/Index.aspx.

 

Le Grotte di Castellana

Le Grotte di Castellana. Credits Terry Feuerborn https://flic.kr/p/pk6g9M

Se vi chiedete perché vale la pena fare una visita sottoterra alle Grotte di Castellana, con tutte le attrattive che si trovano in superficie in questa regione, sappiate che i misteri e le caratteristiche di questo luogo vi convinceranno a fare una tappa durante il vostro soggiorno pugliese.

Le Grotte si trovano a meno di 500 metri di distanza da Castellana Grotte, in provincia di Bari, e sono visitabili seguendo 2 tipi di percorsi, da 1 chilometro e da 3 chilometri.

La caverna principale è chiamata la Grave e da lì inizia un itinerario nelle profondità più oscure della terra, che si snoda, nel percorso da 3 km, attraverso caverne e voragini dai nomi singolari come Grotta Nera (così definita per la presenza di piccoli funghi neri sulle pareti) Caverna della Civetta, Corridoio del Serpente, Caverna del Precipizi, il Piccolo Paradiso, il lungo Corridoio del Deserto (dal colore rossiccio) e la luminosa Grotta Bianca.

Il Museo speleologico Franco Anelli, intitolato allo scopritore delle Grotte di Castellana, consente di approfondire le origini e le caratteristiche di queste cavità sotterranee, perciò consiglio una visita anche qui dopo aver seguito uno dei tour sotterranei.

In occasione del mio viaggio ho scoperto che proprio all’interno delle grotte si tiene il più grande spettacolo aereo sotterraneo del mondo, Hell in the Cave – versi danzanti nell’aere fosco, una rappresentazione del percorso di Dante all’Inferno tramite la danza e la performance teatrale, allestita in una location letteralmente inimitabile.

Hell in The Cave

Se siete in viaggio in Puglia ed è in programma una delle repliche di Hell in the Cave, consiglio di prenotare il biglietto, peraltro c’è la possibilità di acquistare un biglietto combinato che include visita alle Grotte e spettacolo.

 

Mola di Bari

Mola di Bari, Chiesa Matrice. Credits: Gianni Liotine

Le origini di Mola di Bari non sono del tutto note e ciò rende questo borgo ancora più interessante da scoprire: sembra che sia stato fondato dai greci, tuttavia ognuna delle attrattive di Mola è legata a un preciso momento storico e si rispecchia nella bellezza del suo lungomare e nella tradizione del suo porto, uno dei più importanti in Puglia.

Ho percorso a piedi il centro storico per vedere da vicino il patrimonio artistico del borgo, in particolare la Chiesa Matrice, risalente alla fine del XIII secolo.

Questa chiesa è stata riedificata alla fine del Cinquecento, perciò rappresenta un esempio della sublime bellezza dello stile rinascimentale.

All’interno spiccano l’altare in legno dipinto dove è custodita l’icona della Madonna di Costantinopoli (opera del XII secolo) e l’affresco realizzato da artisti di scuola dalmata, gli stessi che si occuparono di restaurare l’intera chiesa.

Uno dei dipinti più rari, conservati all’interno della chiesa, è la Madonna della Neve attribuita a Paolo de Matteis, mentre nella cripta si trova un frammento ligneo che, secondo la tradizione, proviene dalla Croce di Cristo.

Mola di Bari, Castello Angioino. Credits: Gianni Liotine

Il Castello Angioino è uno dei simboli di Mola ed è emozionate poterlo visitare oggi, poiché da fortezza difensiva costruita per difendere la città dalle incursioni dei pirati, è divenuto un monumento di grande pregio e una location esclusiva, poiché oggi ospita periodicamente eventi e conferenze.

A Mola sono molto frequenti le sagre, le feste religiose e popolari, che si svolgono in diversi periodi dell’anno e testimoniano la vitalità di questo borgo medievale, dove si festeggia, fra l’altro la Sagra del Polpo, la fiera gastronomica Terra Nostra, la Festa patronale Maria SS. Addolorata e la Festa di Sant’Antonio.

 

Polignano a Mare

Polignano a Mare. Credits: Gaetano Sabato

L’ultima tappa della mia vacanza è stata Polignano a Mare, chiamata anche “la Perla dell’Adriatico”. Questo riconoscimento è meritato per via della posizione del borgo, a picco sul mare, per la peculiarità delle case bianche che si affacciano sull’Adriatico e per la sua costa frastagliata, dove si alternano grotte e falesie.

Polignano a Mare è la meta romantica per eccellenza vicino Bari, in virtù del suggestivo centro storico, che mi ha impressionato per la varietà di tracce arabe, bizantine, spagnole e normanne, resti delle dominazioni che si sono succedute in questo territorio.

Passeggiando per i vicoli della città ho apprezzato al meglio l’irripetibile unione fra il paesaggio naturale di indomita bellezza e il fascino di palazzi e piazze che sembrano rimaste intatte nel tempo. Consiglio di godersi il panorama dalle terrazze con vista sul mare, uno spettacolo da celebrare soprattutto se si è in vacanza in coppia.

Polignano a Mare

La Puglia è uno scrigno che non finisce mai di riservare sorprese, per questo tantissimi turisti la scelgono come meta prediletta per viaggi colmi di forti emozioni e di fragranze intense.

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Tre modi per visitare Roma in maniera alternativa

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Tutti i turisti del mondo sanno che Roma viene anche chiamata “La Città Eterna”. Questo appellativo deriva dagli antichi Romani, convinti che, nonostante quello che sarebbe successo nel mondo, Roma sarebbe resistita per sempre.

Oggi Roma è ancora una delle mete più ambite da parte dei turisti, che arrivano da ogni parte del globo per ammirarne le meraviglie. Per questo motivo, la città è spesso congestionata, con fiumi di persone che passeggiano per le vie del centro e molto traffico.

A volte potrebbe essere frustrante riuscire a vivere la vacanza con la calma e la tranquillità richieste in queste occasioni. Per evitare traffico e confusione e visitare Roma in totale relax, magari tutelando anche l’ambiente, mi sono affidato ai consigli di Wonder Where To Stay, azienda turistica che da 5 anni fornisce soluzioni personalizzate a tutti i turisti che vogliono visitare questa città fuori in modo non convenzionale e alternativo.

Ho scoperto angoli nascosti della città, che mi hanno fatto vivere la magia unica ed esclusiva di questa antica città, riuscendo ad evitare lo smog e il traffico, e spostandomi velocemente da un punto all’altro. E tutto questo anche rispettando l’ambiente, utilizzando soluzioni ecologiche!

Visita il centro di Roma in Segway

 Il metodo più comodo per visitare Roma tra quelli che ho provato è sicuramente il segway, un innovativo veicolo elettrico a due ruota che si attiva con il peso del corpo e si controlla con un semplice manubrio. Il segway è un mezzo eccezionale perché permette di spostarsi agevolmente tra il traffico cittadino, accedere anche alle zone vietate alle macchine ed essendo elettrico non inquina. Che si può volere di più?

A Roma ci sono diverse aziende che noleggiano i segway, e alcune di queste organizzano anche tour guidati. Scegliendo un tour, visiterete le attrazioni principali della città mentre una guida esperta vi intratterrà con spiegazioni dei monumenti e segreti della città. Tuttavia, io ho scelto di noleggiare un segway a tariffa oraria e di girare in autonomia, senza seguire un percorso prestabilito. Ho scelto Segway Roma, la prima azienda ad aver introdotto i segway a Roma, che offre sia un servizio di noleggio, sia la possibilità di fare tour guidati.

Con il segway ho visitato lo splendido parco di Villa Borghese e le zone pedonali del centro, come Piazza di Spagna e la Fontana di Trevi. Davvero un’esperienza fantastica!

 

Bici: divertente ed ecologico

 Il clima mite e mediterraneo di Roma la rende una città ideale per un mezzo come la bicicletta, soprattutto per le magnifiche strade e panorami che offre. Lungo quasi tutto il lungotevere c’è una pista ciclabile che permette di spostarsi da nord a sud e viceversa velocemente e al riparo da smog e traffico. Ma la vera chicca di Roma è l’Appia Antica, un’antica strada romana risalente al IV secolo a.C.

Questa strada parte dal centro di Roma, nei pressi delle Terme di Caracalla e prosegue per decine di chilometri in mezzo alla campagna romana. Percorrendo l’Appia Antica si incontrano di tanto in tanto spettacolari monumenti, come la Villa di Massenzio, il mausoleo di Cecilia Metella, le Catacombe di San Callisto o le antiche stazioni di riposo e rifornimento pensate per i viaggiatori e i loro cavalli.

Anche nel caso della bicicletta, è possibile scegliere se noleggiare il mezzo per conto proprio o se affidarsi a un tour guidato. I punti di noleggio sono sparsi in giro per la città, solitamente nei pressi dei parchi, del centro storico e all’inizio dell’Appia Antica.

Potete trovare maggiori informazioni sull’Appia Antica sul sito ufficiale del parco a questo indirizzo: http://www.parcoappiaantica.it/home/itinerari/appia-antica

“Vacanze Romane” in Vespa

 Avete ragione, la Vespa non è un mezzo ecologico perché il suo motore è alimentato a benzina. Ma quando mi sono ritrovato in Piazza di Spagna mi sono ricordato del film Vacanze Romane con Gregory Peck e Audrey Hepburn e non ho saputo resistere. Così ho noleggiato una vespa bianca per qualche ora e mi sono catapultato nella Dolce Vita degli anni ’50 e ’60, rivivendo le emozioni del celebre film.

Lo scooter è un mezzo molto utilizzato dai Romani. L’ho capito solo quando mi sono ritrovato a guidare per le strade della città in mezzo a un vero sciame di motorini che sfrecciano nel traffico sotto il sole della Città Eterna. Non posso nascondere di essermi trovato molto a mio agio!

Essendo Roma costruita su 7 colli (almeno il centro storico) non sono rari i saliscendi, e devo ammettere che avere una Vespa in questo caso è stato molto comodo. Ci avrei messo molto più tempo e avrei fatto molta più fatica, mentre in questo modo sono riuscito a visitare Piazza Venezia, il Quirinale, Piazza Barberini e Via Veneto, per concludere con un giro al Giardino Zoologico.

 A parte il piccolo sfizio che mi sono concesso con la Vespa, le mie vacanze romane sono state incentrate sul rispetto dell’ambiente e la ricerca di luoghi fuori dai classici circuiti turistici. Il modo migliore per visitare una città e fare del bene al pianeta!

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Il deserto di Acatama, la terra più arida del mondo

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Sabbia, vastità geografica, caldo asciutto, infinite stelle, il mare del sud. Il territorio più arido al mondo, al Nord del paese più lungo. Il deserto di Acatama è decisamente una terra marciana.

Le sue condizioni geografiche estreme generano una natura sempre vergine, e il nostro contatto con la terra diventa molto stretto. Giorno dopo giorno, passo dopo passo, si inizia a capire il deserto, che non è scontato. È pieno di miraggi blu, che a volte fanno confondere la vista, e per quello in questo viaggio si impara a fidarsi dell’istinto. Tante volte ti trovi da solo, circondato di kilometri di sola terra – ed è proprio quello il bello del deserto di Atacama.

Anche se non saprò raccogliere le immagini del nostro viaggio in un tutto organico – perché l’effetto miraggio è sempre presente – fisserò i singoli frammenti il più fedelmente possibile.

Il nostro percorso per il deserto di Atacama può dividersi in quattro tappe, sempre più in alto e sempre più al Nord.

3.258 km. di autostrada in macchina, in una linea verticale di andata e ritorno:

Santiago – Caldera – Antofagasta – San Pedro de Atacama – Antofagasta – Caldera – Santiago.

Due pensieri per ogni posto.

 

La Ruta 5

876 km. Santiago (la capitale) – Caldera (primo stop, punto base)

1.629 km. Santiago – San Pedro de Atacama

3.363 km. lunguezza totale della Ruta 5, che atttraversa il Cile da Nord a Sud

4.329 km. lunguezza del territorio cileno (1/10 della circonferenza terrestre)

8.000 km. lunguezza del territorio cileno più il territorio antartico (il paese più largo al mondo)

 

DA SANTIAGO A CALDERA

Da Santiago a Caldera abbiamo fatto dieci ore in macchina sull’infinita Ruta 5. Qui si vede il cambio di geografia e natura della valle del Cile centrale che si trasforma fino a diventare deserto. I colori cambiano dal verde vegetale alle montagne di dune color terracotta, che si perdono di vista fino ad arrivare alla Cordillera de los Andes. In quelle dieci ore di viaggio in macchina quasi senza rendertene conto lasci alle spalle le turbulenze della vita in città, per entrare in una condizione desertica che ti emoziona. Il cambio di paessaggio fisico diventa uno stato d’animo, e senti che anche tu ti stai riempiendo di “vuoto” e di tranquillitá.

Prima di partire abbiamo preparato quattro cd, che abbiamo ascoltato per 3.258 km.

CALDERA

Regione di Atacama, norte grande. È allineata frontalmente con l’Isola di Pasqua.

Caldera è un piccolo paese di pescatori nella costa dell’Atlantico, circondato di sabbia, ma molto fertile. Un’oasi ferma nel tempo, per fortuna sconosciuta, la cui semplicità nasconde l’immenso cielo surreale intorno a lei. A Caldera si vede sempre il mare e si scovano spiagge nascoste circondate da alti muri di strati di terra colorata dal giallo al rosso. Lì si trovano fossili coperti di sale che fanno avvertire la magnificenza dell’antica vita sottomarina. Sono frammenti di paradiso costiero, dove arrivano solo quelli che hanno camminato nel deserto per lungo tempo. Tutta Caldera è un museo di fossili di creature marine, rose di sabbia, diversi tipi di cactus, pietre preziose. L’Oceano Atlantico, freddissimo, la custodisce. Tutti i cileni fanno il bagno nell’Oceano. Fra gli europei, solo alcuni osano. Si mangia la jaiva, el loco, el piure e el erizo già conditi con limone e sale, in piccoli cartocci di plastica, che si comprano al mercato per 5 euro.

ANTOFAGASTA

Il nostro punto di appoggio tra Caldera e San Pedro si potrebbe descrivere come una piccola Miami Beach sudamericana. Si beve la michelada lungo la costiera di fronte al mare, si mangia la empanada de mariscos, si guarda il tramonto, si fa surf. La città antica invece è un museo di graffiti che raccontano la storia dell’immaginario mistico sudamericano. La pachamama e i cactus magici stanno ovunque.

SAN PEDRO DE ATACAMA

Il nostro viaggio di tre giorni a San Pedro de Atacama, un Altopiano a 3.300 metri sul livello del mare, si può raccontare come un’immersione graduale nelle venature più profonde dell’altopiano desertico seguita da un’emersione violenta.

Siamo entrati poco a poco, ogni giorno di più, nella profondità delle dune. Seguendo il consiglio di un ragazzo locale siamo riusciti a trovare un posto libero da altre persone e abbiamo fatto un viaggio lungo una giornata nella Quebrada Jerez. Una quebrada è una grande crepa nella terra e questa in particolare era del tipo che si apre per fare passare un piccolo fiume, da cui nasce una valle verde, sempre dentro alla terra, circondata da pianure desertiche. Se si alza la testa da dentro la crepa si vedono muri di terra altissimi, da cui si può distinguere ognuno degli strati della superficie, sentire il caldo secco a picco sulla faccia, e rendersi conto che ci sei solo tu lì, accanto a kilometri di sola terra.

Più profondo nel deserto andiamo, e più intenso si vede l’arcobaleno di colori che dipingono la terra. San Pedro de Atacama è, soprattutto, una ri-scoperta dei colori. Più si abbassa il sole, più diventano rosse le dune e il cielo. La geografía inizia a dipingersi come un tessuto andino: diventa verde, azzurra, di tutti toni del giallo e del rosso. Alzando la testa vedi una stella dopo l’altra apparire all’orizzonte. Le stelle riempiono il cielo – ti circondano in una cupola perfetta a 180º, e pare di avere la sensazione che in quel posto dove stiamo in piedi la terra abbia una certa curvatura, quella del suo circolo.

La luna sta di fronte, e anche se è a metà si vede tutta, talmente grande che sembra un piccolo pianeta. In quel momento si è nel picco della catarsi emozionale e se si continua ad avanzare lungo la ruta si riesce a vedere, l’ALMA (l’anima). C’è anche uno dei radiotelescopi più grande al mondo, che in quel momento sta guardando con il suo enorme occhio le stesse stelle che tu stai guardando. Il 70% dei punti di osservazione al mondo si trovano nel deserto di Atacama, perché la sua condizione pianeggiante ma ad alta quota e la bassa umidità gli permettono di avere cielo terso per gran parte dell’anno.

“Le stelle sono la matrice di tutte le cose della terra e ogni stella è soltanto la prefigurazione spirituale di una pianta, tale come la rappresenta, in modo che ogni erba o pianta è una stella terrestre guardando il cielo, proprio come ogni stella è una pianta celeste in forma spirituale, che è diversa di quelli terrestri solo per la sua materia… piante celesti e erbe si rivolgono al lato della terra e guardano le erbe che hanno procreato, insufflandogli qualche particolare virtù”.

 (Crollius, Tractatus novus de signaturis rerum internis, 1608).

Ad Atacama, le parole “erba” o “pianta” si possono sostituire con “granello di sabbia”. È l’effetto che hai quando scendi dall’altopiano e lasci alle spalle le dune. L’unica raccomandazione: masticare sempre, sempre, le foglie di coca. millenaria pianta andina e cura unica per la puna (mal di altezza).

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La vera storia di Kazantip

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Il guinzaglio della Libido è l’arma con cui l’organizzatore Nikita ha fatto divenire internazionale il festival. Stai certo che la libertà sessuale la noti quando non ce l’hai. Proprio facendo leva sulla naturalezza di certi atteggiamenti e la bellezza delle sue partecipanti, un abile marketing del Sesso libero venne costruito per acchiappare i curiosi occidentali e per far giungere il nome di Kazantip sino alle orecchie più impensabili.

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Donne meravigliose immerse in una cornice profondamente diversa da qualsiasi festival tu abbia mai vissuto. Se saprai guardare e non toccare, avrai trovato il segreto di Z (tutto ciò che è cool viene abbreviato, dicono qui). In un posto dove il biglietto costa come mezzo stipendio, molte delle ragazze che troverete saranno accompagnate. Le poche che parleranno inglese ti faranno vergognare del tuo budget e si vorranno far offrire cocktails che neanche a Milano pagavi così tanto.

Solo il terzo giorno ti accorgerai che paradossalmente una bottiglia di vodka (in alcuni bar) costa come il drink che hai comprato la sera prima.

La moltitudini di privè e opzioni per distinguersi è insita nel modo di divertirsi alla russa, dove tutti erano uguali, ora ti trovi in un festival dove tutti si vogliono sentire diversi. Dove il consumo di sostanze è ai minimi della tua carriera di festaiolo. Pagherai per fare la pipì e verrai radiato se scoperto a farla in giro. Poche le regole serie. Quest’ultima su tutte.

Un delirante spirito anarchico, clownesco, trasgressivo da Tuscolana di Mosca, esibizionista alla Rozzano di San Pietroburgo, misto a paganesimo, papponaggine e burlesque serpeggiano in tutta l’enorme area. Tra piscine, bar, la spiaggia, dance floors, tendoni e aree allestite in maniera assolutamente indescrivibile, il tempo passa e tu sbatti la testa e pensi perché non ho studiato Russo alle elementari? Una vera e propria città a tutti gli effetti quando ci mangi, ci svieni, ci leggi, ti accorgi che sono cinque giorni che non trovi l’uscita e che per entrare hai passato dei controlli che neanche all’imbarco dell’aeroporto hai trovato.

Mi rendo conto che è nei piccoli avvenimenti quotidiani che c’è la forza del festival, in tutte quelle attività strampalate da goliardia sotto LSD che accadono sparse nel grande territorio di Kazantip. La musica della notte diventa solo un contorno nei dettagli che rendono unico questo posto.

Un nome su tutti, DJ List ed il suo set all’alba, a cui dico ancora grazie con inchini saltellanti e traveggole colorate. Una emozione rara ballare con uno dei Dj più famosi della Russia che cambia (resident a Mosca), per il resto le orecchie di un’ ascoltatore raffinato  potrebbero non essere ben sfamate. L’onda generale è mainstream, siamo sinceri, che Nikita non me ne voglia… ma qualche d’uno ti segnala che la musica nella realtà parallela in cui ti trovi, è tra le attrazioni minori.

Sino alla scorsa edizione la grande particolarità del festival era la poca organizzazione per dormire all’interno. Credo che in Georgia sarà diverso.

Ed al SunSet che ogni sera ci si raccoglie e si onora la giornata passata insieme, forse ricordando ciò che eravamo e ciò che siamo diventati. Tra un gong ed un urlo di Gioia. Shastie iest, (la felicità esiste) è il grido di battaglia.

–          Fresh? Ma pischelle?
–          Ragazzi… Una grande lezione ho imparato da Kazantip.

L’universale regola che le donne vanno conquistate e non certo raccontate.

Non sto certo a raccontare a Voi come ho sposato Kateryna di Kiev, 25 anni, incredibile e poliedrica ragazza ucraina che con poche battute mi ha ammaliato e stordito talmente tanto da volermi proporre come suo sposo legalmente riconosciuto nella Repubblica dell’amore di Kazantip e valido per 15 giorni l’anno (fast married). Sono stato pronto a tutto per celebrare tale evento sul punto più alto della Repubblica. Ma quella è un’altra storia, rimane nei cunicoli della mia memoria. Lascia solo un grande insegnamento: cerca l’antropologo dentro di te, ti sarà utile. Quello che accadrà a coloro che avranno il coraggio di arrivare, beh, quella è tutta un’altra storia. Va solo scritta, tra bionde, vodka, difficoltà, incredulità, musica, Mar Nero e…

 

Georgia:  kazantip-republic.com/info/zt

 

(fine)

Dedicato ad Andrea Rocchelli,

i suoi occhi sono andati dove io non volevo

 

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Salento segreto. Alla scoperta della terra dei messapi

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Sembrano fatti per confonderti le idee i cartelli stradali del Salento. Sono tanti, troppi e indicano tutti qualcosa e il suo contrario. E la cosa incredibile è che in fondo hanno sempre ragione loro. Quindi se stai in macchina e hai deciso di scorrazzare qua e là tra le miriadi di paesini che costellano questa terra pianeggiante sospesa nel tempo, prenditela con comodo. Anzi, prova a lasciarti andare e seguire l’istinto. Scoprirai il vero fascino del Salento segreto, al di là della pizzica e dei fondali cristallini. Scoprirai che quello che veramente lo rende un luogo magico è il fatto di essere ancora profondamente selvaggio, vuoi per l’incuria dell’uomo, vuoi per la volontà del suo popolo di lasciare la propria terra libera di essere ciò che è, se stessa.

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Menhir San Paolo | foto di Leonardo D’Angelo | Agenzia Pugliapromozione | viaggiareinpuglia.it

Ed è così che può capitare, per la verità assai spesso, di seguire con lo sguardo i muretti tirati a secco e scorgere una grossa pietra appoggiata tra le steppe. Non ti stupire se si tratta di un Dolmen o un Menhir e se ha molto da raccontare; per esempio su chi eravamo quasi duemila anni fa, prima ancora che il Colosseo vedesse luce, quando il Salento era la terra dei Messapi, piccoli agricoltori e mercanti che ben presto hanno dovuto cedere il passo ai Greci prima e ai Romani poi.

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Dolmen Li Scusi | foto di Leonardo D’Angelo | Agenzia Pugliapromozione | viaggiareinpuglia.it

 

Chissà invece cosa stavano cercando i cinque speleologi che nel 1970 hanno scoperto la grotta dei Cervi a Porto Badisco, e lo stupore che devono aver provato quando dopo millenni ne hanno illuminato le pitture. L’emozione nello scorgere le piccole mani di bambino impresse qua e là a guano e terra rossa, e poi le scene di caccia, le spirali, i grovigli e un buffo re danzante a capeggiare su tutti. E chissà se hanno chiuso gli occhi per sentire il suono della sua danza. Oggi la grotta è chiusa al pubblico, ma il Salento è pieno di caverne e soprattutto di cunicoli percorsi da acque dolci che ne tracciano le viscere. La leggenda vuole che uno di questi risalga fino a una chiesetta antica, antichissima, nascosta nelle campagne di Ruffano. Potrebbe capitare, nel corso delle tue peregrinazioni, di imbatterti da queste parti. In tal caso visitala, dammi retta.

Appena lo sguardo pregno di luce avrà preso confidenza con il buio, ti si materializzerà uno dei Cristi più toccanti dipinti a parete. Macchie rosse di colore sono espressione diretta del suo dolore, mentre i graffi sulle rocce ricordano analoghi dipinti cristiani in terra turca, la Cappadocia.

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il dipinto di Cristo nella Chiesa di Ruffano | foto di Marta Saviane

Poco lontano, nel centro di Casarano, un’altra cappella bizantina si offre in tutto il suo tacito spettacolo. È la chiesa di Santa Maria della Croce, fra i luoghi di culto cristiano più antichi al mondo. Ma è seguendo il canto delle cicale che riposano nelle pinete più a Sud verso il mare che potresti scovare l’espressione più suggestiva dell’arte bizantina, la cripta del Crocefisso. A vederla così, semplice e scarna sotto il calore cocente del sole di Ugento, sembra solo una piccola chiesetta di campagna. Eppure al suo interno custodisce un tesoro. L’ambiente sottostante è intriso di sacralità e mistero, tra dipinti cristiani misti a simboli esoterici paleocristiani, ma anche a figure naturalistiche e mostruose, e a scudi crociati, rossi e neri, testimonianza chiara di una qualche relazione con i Templari e i Cavalieri Teutonici. Alzando lo sguardo, fuori, torri di vedetta testimoniano il tempo che fu, quando i Turchi minacciavano le terre d’Otranto e i crociati partivano dalle sue coste verso Oriente. Chissà se il vecchio ulivo di Borgagne, che si vanta di essere il più antico al mondo, ne ha viste mai le gesta.

Se per caso ti sei fermato a rinfrescarti sotto le sue fronde prova a chiederglielo. È così bello perdersi tra le sue storie.

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Nella stanza di Diomede la via per le isole Tremiti

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foto di Silvio Pastore Stocchi 

L’estate di tre anni fa, in un pomeriggio afoso del luglio romano, trovai una scatola che mi avrebbe cambiato la vita. Da poco trasferitomi a Trastevere decisi di portare quel che restava del trasloco nella cantina condominiale. Secca e ventilata sembrò quasi un miraggio, quando fuori la temperatura ricordava quella di Rihad. Una volta sistemate le cose scorsi una scatola in un angolo. Non so cosa mi spinse ad aprirla, ma da quel momento la mia estate cambiò.

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Al suo interno erano custodite una lettera, due fotografie e alcune mappe subacquee. Aprii la lettera, che sparse il suo odore di carta antica, ma per una sorta di rispetto decisi di non leggerla. Le mappe rappresentavano le Isole Tremiti e le fotografie ritraevano una ragazza e lo scorcio di un complesso abbaziale sul mare. Richiusi il tutto e tornai alla quotidianità, ma per due notti non feci altro che ripensare al contenuto della scatola, alla storia che immaginavo si celasse dietro quelle mappe e quelle due fotografie. Preda dello stress cittadino, delle delusioni e delle inquietudini di una vita decisi di andare a riprendere quella scatola per scoprire cosa nascondesse realmente. Il palazzo era abitato da famiglie che di Trastevere conoscevano esclusivamente il nome, se gli avessi chiesto spiegazioni sul contenuto di quella scatola mi avrebbero considerato una persona poco riservata. L’unico modo per scoprire quel segreto era di partire per le Isole Tremiti.

Arrivato al porto di Manfredonia, dopo aver ascoltato tutta la discografia di Lucio Dalla, il quale scoprii aver legato parte della sua personale storia a quella della città pugliese, comprai un biglietto per l’Isola di San Nicola. Dalla nave riconobbi subito il complesso abbaziale di una delle due fotografie, e un addetto del traghetto mi spiegò che si trattava dell’Abbazia di Santa Maria al Mare, fondata nel 1045 dai monaci Benedettini. Trovata una sistemazione, guardando la scatola, immerso in una calma avvolgente, mi chiesi chi e cosa mi avessero portato lì. Non volevo ammetterlo, ma la voglia di dare un senso all’ennesima estate sprecata era la risposta ai miei interrogativi esistenziali. Non serve per forza un aereo per sentirsi in viaggio. Il viaggio è il luogo stesso della ricerca, è quel bisogno ancestrale e innato che ha l’uomo di esplorare ciò che non conosce di sé e dello spazio che lo circonda.

Ora, una volta arrivato, non restava che trovare le risposte a quella scatola e al suo personale mistero. La notte, passata in un’ospitale pensione dell’isola, la trascorsi con lo sguardo fisso sulla lettera chiusa. L’indomani mi spostai sull’Isola di San Domino e decisi di recarmi presso un centro d’immersioni. D’immersioni sapevo quel che avevo appreso durante il corso per prendere il brevetto avanzato a Ischia. Di quelle mappe, segnate dal tempo, restavano bellissimi tratti su carta, ma presentandomi al Tremiti Diving Center ebbi subito la sensazione che grazie a quel luogo avrei potuto ricostruire la storia di quei punti segnati e di chi, dietro gli oggetti ritrovati in cantina, si celava. Mostrai le mappe chiedendo di indicarmi dove mi sarei potuto immergere per raggiungere i punti segnati. In quell’istante mi ricordai della mitologia greca, del mito di Diomede, di comel’eroe acheo avesse diffuso la civiltà nell’Adriatico e di come le Isole Tremiti fossero nate dal suo lancio di tre massi provenienti da Troia. Una voce femminile mi riportò alla realtà.

Pensai che il giorno successivo avrei iniziato la mia avventura subacquea e che fosse giunto il momento di abbandonare la mia falsa riservatezza e aprire la lettera. La lessi sulla spiaggia di Cala delle Arene. Era la lettera di un addio, a tratti criptica, scritta a una ragazza. Parlava della fine di un amore e della rinascita di colui che l’aveva scritta. Mi colpì il fatto che descrivesse con assoluta parsimonia il loro ultimo incontro presso la Grotta delle Viole, sull’Isola di San Domino.

Il primo giorno d’immersione ci recammo presso Punta Secca e proprio nell’attimo in cui iniziai la discesa mi accorsi che non ero lì per la sublime bellezza del luogo, ma per scrutare la mia anima mentre scendevo nel blu dell’abisso del mare. Nei dieci giorni successivi mi immersi a largo di San Nicola presso lo Scoglio Segato poi quattro immersioni tra nidi d’aragoste, alcionari mediterranei e saraghi stanziali a largo dell’Isola di Capraia. Dopo giornate passate leggendo, ascoltando musica e chiacchierando con gli abitanti dell’isola mi resi conto che il dialetto era simile a quello del mio primo corso da sub. Infatti, come lessi su una guida, le Isole avevano avuto da sempre la funzione di colonia penale. Lo stessero vollero i Borbone e questo spiegava il perché di quel dialetto ischitano.

Dopo dieci giorni di pernottamento una notte finalmente decisi di immergermi nella Grotta delle Viole, quell’ultimo luogo dell’anima descritto nella lettera d’addio. Mi resi subito conto, nonostante l’oscurità, della bellezza del luogo e della molteplicità dei colori e fino all’ultimo drift tutto sembrava aver assunto il compito di ricongiungermi con il sublime. Mi venne in mente la sezione aurea la chiave della perfezione cosmica della natura. Questa formula era divenuta nei secoli l’ideale della proporzione artistica, dal Partenone di Fidia al Modulor di Le Corbusier. In quel preciso istante di risalita pensavo di possedere anch’io la chiave di tale perfezione.

Steso sul letto della pensione come se fossi un abitante dell’isola capii che quella lettera non era mai stata spedita. Chi l’aveva scritta non aveva avuto bisogno di un addio, perché immergendosi in quel mare delle Isole Diomedee aveva ricevuto il benvenuto alla sua reale dimensione di vita. Una dimensione fatta dall’esigenza di ricerca del sublime. La stessa ricerca che mi aveva fatto aprire quella scatola. Una scatola che era divenuta per me uno scrigno.

 

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Taccuino di viaggio in Moravia

Un’amazzone punk in Tasmania

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«Che hai un cerchietto per il mio labbro?»

Il mio primo incontro con Alessandra Nicosia è iniziato così, eravamo nella sede dell’azienda di consegne in bici, Eadessopedala, per cui lavoravamo entrambi e per cui lei lavora ancora.

A Roma andare in bicicletta è una cosa piuttosto pericolosa, la cultura di questo mezzo di locomozione sta iniziando solo da pochi anni a fare la sua comparsa e per le strade è come essere invisibili. Fare poi consegne in bici è più o meno pericoloso come maneggiare uranio impoverito senza protezioni, roba da veri duri o da veri psicopatici e credo che io e Ale rientriamo pienamente nella seconda categoria, probabilmente lei anche nella prima.

Oltre a rischiare la vita quotidianamente per sbarcare il lunario è un’infaticabile cicloviaggiatrice, prettamente solitaria. Ha raggiunto Capo Nord, ha fatto il giro dell’Islanda e ora sta esplorando Tasmania e Australia. Se a tutto questo si aggiunge che è anche simpaticissima e superironica, capirete come non si può non apprezzarla.

Una vera amazzone punk, visto che fa tutto da sola, seguite assolutamente il suo blog (alessandranicosia.blogspot.it) e sostenetela nei suoi viaggi. Se poi avete la fortuna di incontrarla mentre follemente si aggira per il mondo, vuol dire che siete baciati dalla sorte.

Ale Fox in Islanda la bici di Ale Fox in Australia Il percorso di Alessandra in Tanzania: all'incirca 1.000 chilometri

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Sulcis in fundo: l’ultima minatrice

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Patrizia, l'ultima minatrice

testo di Federica Araco

«Respira, respira piano. I tuoi occhi presto si abitueranno al buio. Non aver paura, questo è il nostro mondo. È casa tua».

Il vecchio montacarichi, cimelio ancora funzionante degli anni Trenta, cigola e oscilla nel vuoto. La carrucola si aziona e un rumore sinistro ne accompagna la lenta discesa, fino alle viscere della terra. Cinquecento metri in sette minuti.

Quando anche l’ultimo spiraglio di luce viene inghiottito dall’oscurità, la vista ci mette un po’ a orientarsi. Poi, lentamente, si cominciano a distinguere le prime forme: lunghi tunnel scavati nella roccia, grovigli di cavi, tubi per l’areazione, carrucole, pompe ad aria compressa ed enormi macchinari che, come mostri meccanici, ostentano i loro denti, aguzzi e spaventosi.

Tutto è avvolto da una polvere scurissima e da un silenzio surreale, a eccezione dell’inferno, il luogo dove si prende il carbone. Ovunque c’è materiale altamente infiammabile. Nel ventre della montagna non è consentito fumare né portare oggetti eccetto quelli previsti dalla divisa autorizzata: un elmetto con la luce frontale, scarponi pesanti e la tuta da lavoro.

Seduto tra santini e immagini votive, un uomo snocciola i grani di un rosario recitando il Padre Nostro. Le sue mani grandi, segnate dal tempo e dalla fatica, sembrano inadatte a un gesto così delicato. Gradualmente, altre voci si uniscono alla sua novena. Sono quelle dei centocinquanta minatori dell’ultima cava ancora estrattiva della zona mineraria del Sulcis Iglesiente, l’area più povera della Sardegna e del Paese.

Patrizia è una di loro. I suoi muscoli sono addolciti da curve generose e dal rilassamento tipico di chi ha superato la cinquantina. È l’addetta al rilevamento del gas inodore e conosce ogni angolo di quell’enorme città sotterranea, della quale è l’indiscussa regina.

Nipote, figlia, sorella e zia di minatori, è l’unica donna della famiglia ad aver scelto questo faticoso mestiere, e forse l’unica in Italia. Un lavoro secolare che è al contempo orgoglio e maledizione. E che genera un viscerale attaccamento a un luogo buio, insalubre e pericoloso che, però, tutti qui considerano casa.

Stretti tra le pietre, schiacciati tra la polvere e il silenzio, questi eroi dell’oscurità dialogano con i propri cari defunti, tra ricordi e improvvisi bagliori di luci. Molti hanno perso i parenti in quelle stesse gallerie dove, una volta adulti, hanno scelto di lavorare.

La cava ancora estrattiva della zona mineraria del Sulcis Iglesiente, l’area più povera della Sardegna e del Paese

«La miniera è un luogo incredibile e sconosciuto. Volevo raccontare la vita che vi brulica dentro», spiega la regista Valentina Pedicini, che ha proiettato il suo documentario Dal profondo in una serata de I Racconti del Lavoro Invisibile alla Casa Internazionale delle Donne di Roma.

«Dopo sei mesi di riprese e circa due anni trascorsi nella cava di Nuraxi Figus, nel cuore del Sulcis, sono tornata cambiata. Era l’ultima miniera rimasta in attività, malgrado le continue minacce di chiusura perché considerata in perdita da un punto di vista economico. Ora è dismessa, ma un gruppo di minatori deve continuare a monitorarla perché è a rischio di esplosione finché non verrà definitivamente allagata».

Quando quella realtà sotterranea, teatro di quasi due secoli di storie, lotte, paure e speranze, scomparirà per sempre tra i flutti queste immagini saranno l’ultima testimonianza.

Un lavoro intenso ed essenziale, scaturito dall’incontro tra due sguardi femminili che hanno deciso di svelare, insieme, quell’interregno misterioso nelle viscere della terra dove si vive nell’invisibilità, sospesi tra la vita e la morte.

«Patrizia era tutto quello che cercavo racchiuso in due occhi azzurri e in una vicenda personale e familiare capace di assurgere a modello della storia mineraria declinata al femminile», scrive l’autrice nelle note di regia. «Scendere con lei, anche solo una volta, in miniera, ha determinato lo stile del film. Un film ambientato sottoterra, al buio, dove la natura ostile ha costretto i protagonisti e la troupe a nuove forme di adattamento, […] lavorative e fisiche, […] espressive e filmiche».

Capovolgendo la prospettiva, Dal profondo propone una sorta di narrazione del mito della caverna platonica al contrario. Con le sue inquadrature lente, scurissime, i suoi dialoghi rarefatti ed essenziali, descrive il mondo sotterraneo con tale densità simbolica e affettiva da far apparire la realtà in superficie priva di interesse, artificiale, superflua.

«La miniera crea dipendenza» ammette la regista. «Dopo ventisei giorni passati ininterrottamente al suo interno per girare, con turni anche di quattordici, diciotto ore, non è stato semplice riabituarci al mondo esterno. È un fenomeno strano. Lì sotto manca tutto: l’aria, la luce, lo spazio. Eppure senti di non aver bisogno di nulla».

dalprofondo.lasarraz.com

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La Provenza dal finestrino di una macchina

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Dal Verdon alla Camargue

Dopo una nottata trascorsa a Marsiglia, affitto una macchina e mi dirigo verso Nord-Est, puntando le Gole del Verdon. Inizia così il mio viaggio attraverso le meraviglie de La Provence.

La prima tappa è Aiguines, un piccolo comune di trecento abitanti alle porte del Verdon completamente immerso nel verde. Accosto davanti a una pineta e noto una coppia di ragazzi sdraiati sull’erba, proseguo e più passeggio più gli sdraiati sbucano come funghi. È l’ora di pranzo: tutti mangiano, bevono e prendono il sole. Continuo a camminare e imbocco una discesina di una decina di metri. Senza rendermene conto un infinito lago artificiale color carta da zucchero si presenta davanti ai miei occhi.

È solo un accenno di quello che mi aspetta, quindi mi gusto velocemente il primo pranzo provenzale e proseguo ancora a Nord, verso le Gole.

La chiamano La Corniche Sublime, D71 per i viaggiatori da strada, ed è il tragitto più spettacolare per ammirare il grande canyon d’Europa. Ci si rende conto di averla imboccata una volta circondati da falesie vertiginose e tornanti a perdita d’occhio; spingendomi sempre più su e seguendo da vicino il bordo delle gole noto un susseguirsi di belvederi dai quali scopro le acque del Verdon. Guardo giù come una bambina incuriosita che si copre gli occhi con le mani: l’acqua è cristallina, si intravedono i sassolini che le fanno da letto e il panorama vertiginoso esercita su di me un’attrazione quasi magnetica.

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le Gole del Verdon, il canyon più grande d’Europa

Le Gole del Verdon sono meta ambita per chi ama viaggiare in moto: durante tutto il tragitto vengo infatti accompagnata da diversi gruppi di motociclisti e, alla fine, dopo vari sorpassi e sgasate, ci troviamo tutti sul punto più alto della strada con lo sguardo rivolto verso il basso ad ammirare quell’enorme spaccatura della terra lunga ben ventuno chilometri.

Prosegue il mio viaggio nel cuore della Provenza e decido di fermarmi per la notte a Digne les Bains, un’antica cittadina termale a seicento metri di altitudine incastonata tra la Provenza e le Alpi. Nonostante sia circondata da distese di verde e antiche terme naturali, Digne ha l’aria di essere una cittadina moderna in un luogo dove invece il tempo sembra essersi fermato. È decisamente un’eccezione rispetto al paesaggio che la circonda; un locale aperto dal tardo pomeriggio alle prime ore del mattino apre le porte a questa deliziosa cittadina che pullula di giovani.

Le vie acciottolate della città vecchia sembrano inizialmente spente ma perdendomi tra i vicoli scopro altri locali e un meraviglioso ristorante, Le Chaudron, che consiglio a chiunque passi da quelle parti: cucina a vista con un unico tavolino davanti, la proprietaria è una signora di una certa età vestita in modo buffo ma molto elegante, (davvero molto francese!). I tavoli sono al piano di sopra e la sala ricorda una vecchia cantina, color bianco sporco. Sulla sinistra c’è un piccolo bancone di legno a forma di mezzaluna, indispensabile per offrire agli avventori caffè e cognac. I tavoli sono pochi, la luce è calda e l’ambiente molto intimo. Scelgo senza pensarci troppo le specialità del posto, dalle escargots, condite con una salsa verde a base di erbe aromatiche, a un marmiton di foie gras.

Il Luberon

La mattina seguente mi dirigo verso l’angolo di Provenza dove si respira l’aria più pura d’Europa, il Massiccio del Luberon. È un mondo a parte rispetto alle regioni circostanti e si estende complessivamente lungo ottanta chilometri da Est a Ovest in un’esplosione di colori e odori. Dal verde scuro dei vigneti e il malva pallido e cupo della lavanda non ancora in fiore al celeste accecante delle finestre dei villaggi il Luberon affascina e lascia il tempo di perdersi nei dettagli.

Passo di sfuggita a Cucuron, nella parte Sud, e proseguo fino a Lourmarin, un villaggio segnato dalla stretta e lunga valle che separa il Petit e il Grand Luberon. Un luogo delizioso ma dannatamente turistico. La via principale è colma di botteghe di tutti i tipi ma i vicoli più nascosti mostrano la vera anima di questo posto: giardini privati con lo steccato bianco dove riesco facilmente a intrufolarmi, finestre di tutti i colori e gatti a non finire.

A nemmeno un’ora di distanza c’è Gordes, arroccato in cima a uno sperone roccioso. Arrivando da Lourmarin me lo trovo davanti ancora illuminato dal sole: un concentrato di casette e torri intervallate da enormi pini.

Mi godo un meraviglioso mercato di paese all’insegna di formaggi vini e foie gras e mi riposo nel più bel Bed&Breakfast dove sia mai stata in vita mia, Le Mas de la Beaume.

Gordes

il mercato di Gordes

Gordes è un vero incanto ed è tornato a essere un’attrazione turistica da qualche anno grazie al film Un’ottima annata di Ridley Scott, girato interamente tra i paesini più suggestivi del Luberon. La piazza con la fontana e il ristorante, celebre per la scena magica tra la dea irrazionale Fanny e l’egoista pentito Max, è intima e silenziosa e si è tenuta stretta quel delicato romanticismo che ricordavo nel film.

Complice la suggestione, mi sposto leggermente fuori Gordes a Chateau la Canorgue dove sono state girate le scene del vigneto; il casale è di un ricco produttore di vino che dopo aver prestato le mura per girare il film ha lasciato libero accesso nei vigneti ai più curiosi. C’è un piccolo ristoro dove è possibile degustare i vini da lui prodotti e ammirare da fuori il casale, ovviamente chiuso agli estranei.

Dopo aver bevuto del vero vino provenzale, passo per Bonnieux, Lacoste e Roussillon, tre gioielli della Provenza: Lacoste è un villaggio interamente dominato dalle rovine del castello del marchese De Sade, mentre Roussillon spiazza per i suoi colori, l’arancione delle case si mescola infatti al rosso ocra della scogliera dei Giganti, soprannominata Sentiero delle Ocre.

Lascio il Luberon per dirigermi verso la Camargue.

Dopo un paio d’ore di viaggio arrivo ad Arles, una città antica lungo le sponde del Rodano.

Arles ha due facce: guardando il foro, l’anfiteatro e le viuzze strette tipicamente romane si rintracciano i percorsi della storia, ma è anche una città molto giovane e dinamica. La sera i bistrot e i locali si riempiono, i ragazzi gironzolano qua e là e a me sembra quasi di essere tornata a Roma.

Il Parco Naturale della Camargue

Mi accorgo di essere sulla via che mi porta nel cuore della Camargue quando vedo alla mia destra un branco di tori neri e alla mia sinistra dei meravigliosi cavalli bianchi. La cosa sorprendente di questi animali è che qui sono selvaggi, hanno mantenuto la loro libertà e indipendenza.

Questo territorio è piuttosto selvaggio, con ettari di risaie, paludi, sabbia. Il clima è umido e gli insetti non si contano, ma il suo fascino è indiscutibile e dopo averlo assaporato mi dirigo verso le Salin de Giraud. Il borgo è deserto, anche un po’ inquietante per la verità, ma una volta superato mi godo le saline più estese d’Europa. Come al solito i colori prendono il sopravvento: quando il sale inizia a depositarsi sul fondo per effetto dell’evaporazione i bacini si tingono di varie sfumature, dal blu al violaceo al rosso, e lo spettacolo è unico.

L’ultima tappa è la spiaggia di Piémanson, una lingua di sabbia lunga venticinque chilometri frequentata principalmente da naturisti, con molte roulotte e gente a cavallo.

Sembra che tutti stiano qui da sempre.

 

Carmague

Parco Naturale della Carmague, tra il Mar Mediterraneo e i due bracci del delta del Rodano

 

 

 

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Santiago de Huata: il turismo che fa bene

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Immaginate di essere sulle rive del Titicaca, un posto magico immerso in natura incontaminata dove mai un turista ha messo piede. Voi siete i primi. Non è questo ciò che ogni viaggiatore sogna?

Appena atterrati a La Paz il 6 Gennaio, la mancanza di ossigeno ci affatica il respiro. L’emozione di rivedere questi luoghi a un anno esatto di distanza ci fa però dimenticare tutta la fatica. Lasciamo l’aeroporto in direzione nord e dopo quasi due ore tutto d’un tratto le acque del Titicaca ci affiancano l’auto. Lo sguardo si perde sul lago navigabile più alto al mondo, a quasi quattromila metri terra e cielo sono così vicini che a volte sembrano toccarsi. Il sole tagliente dell’altopiano disegna paesaggi netti e decisi, il verde acceso della terra divide a metà il blu delle acque e del cielo. In lontananza le cime bianche innevate della Cordillera Real ci ricordano che siamo nel bel mezzo delle Ande.

Santiago de Huata

Dopo qualche chilometro di curve la costa si arriccia su se stessa e in una baia invitante giace Santiago de Huata. Qui Linda ed io abbiamo deciso di fermarci un anno intero, dodici mesi per aprire una nuova rotta turistica per un progetto di turismo comunitario.

Era l’inverno del 2015 e stavamo attraversando l’America del Sud: tre mesi tra Perù, Bolivia, Argentina e Cile. Quasi per caso scegliemmo una strada alternativa tra Copacabana a La Paz. Un nostro vecchio amico ci aveva dato il contatto di un padre italiano in quella zona che forse poteva trovarsi ancora lì. Il 23 Dicembre lo contattammo e due giorni dopo abbiamo festeggiato il Natale a Santiago de Huata. Padre Leonardo Gianelli ha lasciato la sua parrocchia di Gubbio nel duemila per diventare missionario in Bolivia e da allora non è più tornato. “Amo questa terra, con tutte le sue bellezze e contraddizioni. E’ un luogo di povertà ma non miseria”.

Ospitalità Chuquinapi

Huata però si sta spopolando, i giovani migrano verso La Paz o le piantagioni di coca alla ricerca di un futuro migliore. Alcuni riescono, molti si perdono tra periferie e alcol, nuovi schiavi di un sogno di modernità. Spinto dall’urgenza di arginare questa migrazione di poveri, padre Leo ha pensato al turismo come l’unica possibilità di futuro. Ha creduto talmente tanto in questo progetto che adesso Santiago è entrato a far parte di un piano nazionale per lo sviluppo del turismo comunitario in aree rurali. Qui entriamo in gioco noi. Per tutto il 2017 Linda ed io guideremo il progetto turistico di Santiago de Huata, gli anni di esperienza nel settore alberghiero per Linda e come Guida Ambientale Escursionistica per me ci permetteranno di dare una mano qualificata.

Il primo mese è stato già pieno di emozioni. Abbiamo rivisto gli amici lasciati un anno fa: Cristina, Rosita, Hortensia, Victor, Luisa, Riguccio. Con loro abbiamo cominciato a lavorare sul progetto per la nuova stagione turistica che inizierà in Maggio. Nella bellissima casa di ritiro “José Ferrari” stiamo ricavando camere confortevoli e attrezzate adatte anche al turista più esigente. Il posto è magico, direttamente affacciato sul lago e sulla famosa spiaggia di Chuquinapi, un’oasi di tranquillità e confort in mezzo alla natura. Lavoreranno nell’impresa turistica circa dieci ragazzi del posto che stiamo formando. I responsabili della struttura sono Victor e Luisa, laureata in Turismo, mentre lo chef è Romer, diplomato nella migliore scuola di cucina di La Paz.

Spiaggia Chuquinapi

Victor ci ha portati ad esplorare tutta la zona di Huata fin nei suoi angoli più nascosti e le attività che si possono fare qui a Santiago sono davvero tante. Il lago è protagonista con i due catamarani di alta tecnologia costruiti dalla falegnameria del paese su disegno di due ingegneri italiani. Puntiamo a che Santiago de Huata diventi un santuario per gli amanti della vela essendo la località che offre l’esperienza di navigazione a più alta quota nel mondo. In più ci sono tantissimi trekking da fare nell’altopiano alla scoperta dei villaggi più sperduti. Per chi cerca la montagna si organizzano escursioni guidate nella Cordillera Real in collaborazione con la Scuola Andina di Penas, a un’ora di auto da Huata.

Ogni anno migliaia di turisti visitano l’Isla del Sol, La Paz e il Salar de Uyuni. Riusciremo ad attirare un po’ di questo flusso? Adesso il piano di lavoro è cominciare a farci conoscere. Già da quest’anno ci apriremo al turismo italiano e internazionale contattando agenzie di turismo responsabile e mettendoci online sui più importanti siti di prenotazione.

Victor

Adesso manca solo che ci veniate a trovare. Visitare Santiago de Huata non significa solo fare vacanza, vuol dire anche fare qualcosa di buono per la gente di qui e per se stessi. Soggiornare qui significa conoscere direttamente le facce di Victor, Luisa, Romer, Jaime, Haide, Delshi, di chi lavora al progetto e ci crede perché questo rappresenta il loro futuro. Per chi è interessato può contattarci direttamente al nostro indirizzo email. Vi terremo aggiornati sugli sviluppi del progetto su The Trip Magazine e sul mio blog www.fabiomarzi.com. Un saluto da Santiago de Huata, vi aspettiamo!

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Ischia da scoprire, 5 cose da non perdere

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Tra parchi termali, castelli e immersione nella natura, scopriamo un volto inconsueto di Ischia, molto di più di una semplice meta estiva

Mare, storia, bagni termali sono solo alcuni degli elementi che rendono Ischia una delle isole più belle di tutta l’Italia. Considerata l’isola con la più alta concentrazione di bagni termali di tutta l’Europa, Ischia nasconde moltissime meraviglie e sicuramente la semplice definizione di “località balneare” non le rende giustizia. Soprattutto per la grande varietà di cose che si possono vedere: siti archeologici, parchi termali e castelli tra i più belli del mondo.

L’isola inoltre è facilmente raggiungibile, anche per le famiglie che hanno bisogno di partire con l’auto, grazie alla prenotazione online di traghetti per Ischia. Nulla di più semplice! E ora, siete pronti a prendere nota? Ecco le 5 località di Ischia imperdibili secondo noi di The Trip Magazine:

IL MONTE EPOMEO

Con i suoi 787 metri, si tratta del punto più alto dell’isola da cui potrete godere di un panorama mozzafiato di Ischia a 360°. Saliti fino in cima, vorrete dedicarvi alla meditazione e ai vostri pensieri più intimi anche grazie all’aura di misticismo creata dalla presenza dell’eremo di San Nicola, un tempo abitato dai frati. Per raggiungere la vetta dovrete partire da Fontana e percorrere una strada molto ripida ma per fortuna asfaltata – almeno fino all’ultimo tratto, dove si trasforma in una mulattiera.

I PARCHI TERMALI

I parchi termali sono una delle più grandi ricchezze ischitane, imperdibili sia che ci andiate d’estate o fuori stagione perché sono infatti praticabili tutto l’anno. Da non perdere i più famosi: i giardini termali Poseidon. Il parco è locato sulla baia di Citara e vanta ben 20 piscine termali (di cui 3 coperte, in barba al freddo e alla pioggia!) la cui temperatura varia dai 16 ai 40 gradi. Aggiungete poi una spiaggia privata attrezzata con ogni comfort, sauna, percorsi kneipp, 3 ristoranti in cui gustare le specialità dell’isola. Altri parchi termali tra cui potete scegliere: il Parco Negombo, nella baia di San Montano; il Castiglione Terme, tra Ischia e Casamicciola; Il Tropical e l’Aphrodite-Apollon, nel borgo di Sant’Angelo.

IL CASTELLO ARAGONESE

Da non perdere questo castello, aperto anche d’inverno e visitabile al costo di 10,00 €. Si tratta della fortezza di Alfonso il Magnanimo, per secoli il centro della vita sociale e politica di tutta l’isola durante il Regno di Napoli. Questo è il luogo perfetto se siete dei veri amanti della storia: fu proprio intorno alle mura del castello, infatti, che Ferrante, figlio di Alfonso d’Aragona e legittimo erede del Regno di Napoli, sconfisse Giovanni D’Angiò nel 1464. Qualche decennio dopo, Innico d’Avalos, servitore di Ferrante II (Ferrantino), organizzò la resistenza contro la flotta di Carlo VIII re di Francia. E per finire, nel 1809 il castello fu bombardato dalla flotta inglese. Andate a immergervi nella storia!

SANT’ANGELO D’ISCHIA

Se è detto “La piccola Capri” ci sarà un perché. Anzi, più di uno: è la zona a sud più esclusiva di tutta l’isola e rappresenta effettivamente un’ “isola dentro l’isola” per la sua diversità rispetto al resto del territorio ischitano. Si tratta di un borgo interamente pedonalizzato, dove ci si muove con i carrelli elettrici, e casa di molti pescatori (l’agricoltura e il commercio sono invece le attività principali del resto dell’isola). Dal porto di Ischia potete raggiungerlo in auto, scooter o con i mezzi di trasporto pubblico locale. Sicuramente visitarlo fuori stagione vi permetterà di scoprirne l’anima più tradizionale, soprattutto se ci andate alla fine di settembre: potrete infatti assistere alla Festa di San Michele, protettore del borgo, con una processione a mare molto suggestiva.

I GIARDINI LA MORTELLA

Il parco botanico de La Mortella ospita più di 184 specie differenti di piante che godono del clima mite dell’isola. Potrete percorrere diversi sentieri didattici per scoprire curiosità e storia delle varietà custodite qui. E’ considerato uno dei parchi botanici più belli al mondo ed è già stato premiato con il riconoscimento di “Parco più bello d’Italia”. Da qui potrete raggiungere il bosco di Zaro dove vedere la famosa Colombaia, villa in stile liberty appartenuta a Luchino Visconti.

Una piccola, immancabile, nota finale.

Se i vostri giorni a Ischia vi permetteranno di visitare almeno la maggior parte di queste bellissime mete e doveste ancora avere un po’ di tempo, fate un salto a Napoli per gustare l’inimitabile pizza cotta al forno a legna e le altre specialità culinarie campane.

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Marocco, vivere “The Truman Show” a Melilla

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Melilla, Marocco da qui parte il racconto di viaggio di Riccardo Sartori che ci porta e rivivere il celebre film di Peter Weir nell’enclave spagnola

Casomai non vi rivedessi buon pomeriggio, buonasera e buonanotte! Comincia con queste battute il “The Truman show”, film del 1998 diretto da Peter Weir ed interpretato da Jim Carrey. La pellicola candidata a tre premi Oscar si basa sulla storia di Truman Burbank che ignaro, vive all’interno di un immenso studio televisivo circondato da attori ed osservato da milioni di telespettatori ventiquattro ore al giorno. Questa la sensazione che si ha una volta arrivati a Melilla, l’enclave spagnola nel nord del Marocco, una città di 73mila attori in un set cinematografico costruito per il turista.

A Plazas de Las Culturas Josè spiega ai pochi presenti le particolarità di Melilla La Vieja, la città vecchia, e la sua storia. Colonia fenicia dal 72 d.C. passò sotto il dominio romano, mussulmano e poi marocchino fino al 1497 quando venne occupata dagli spagnoli della Reconquista, da allora ha subito molteplici tentativi di annessione da parte del Marocco.

Con una superficie di 12 km2 si presenta come una città spoglia, vuota, disabitata. Nelle piazze, panchine rovinate dal tempo sperano invano che un passante si sieda mentre sembra quasi di sentire le risate di bambini che si rincorrono all’ombra dei pochi alberi verdi e rigogliosi. Allontanandosi dal centro città invece la situazione cambia.

Melilla, Spain – Cars abbandoned in the poorest area of the city

Dalla desolata Spagna i pochi chilometri che separano la città vecchia dal confine con il Marocco conducono dritti al cuore di un altro Paese. Cambia tutto, le persone, la lingua, l’ordine, gli edifici: un uomo disteso mette insieme i pezzi del motore della sua auto così battuta da non avere più forma, un altro litiga con tre agenti della Guardia Civil, una colonna di decine e decine di auto suonano e strillano per passare per primi, accanto due ragazzi dormono distesi su dei cartoni all’ombra di una palma. Sulla sinistra il puesto fronterizo di Beni-Enzar, la dogana internazionale tramite la quale si entra in Marocco; sulla destra un grande spiazzo sabbioso dove un formicaio di uomini, donne velate, giovani e vecchi si allineano fino a formare una fila lunga mezzo chilometro. Sono i “portadores” che ogni giorno fanno la spola tra Spagna e Marocco portando sulle spalle chili mercanzia e sui volti la fatica del loro lavoro.

Melilla, Spain – A group of “portadores” attends the own turn to transport products in Morocco. The dwellers of Farkhana, Beni-Ensar and Mariouari, small cities close to Melilla, have the visa through which they can go in or out from Spain without controls

Melilla, come la vicina Nador in Marocco non ha alcun tipo di produzione ed esporta solo merce importata a sua volta. Dalla penisola iberica arrivano navi cariche ogni giorno: scarpe, cibo, alcool, carta igienica, ruote vengono scaricate al porto, trasportate su dei furgonicini fino alle dogane di Beni-Enzar e Barrio Chino ed esportate a spalla dai portadores. Le merci potrebbero tranquillamente passare per la dogana carrabile ma verrebbe applicata una tassa che per quella pedonale non è prevista. Dal lunedì al giovedì, dalle 9.00 alle 12.00 la colonna stanca ed urlante conta fino a 7000 persone coordinate dagli agenti della Policia Nacional che non si fa scrupoli ad usare i manganelli per snellire il traffico. Un uomo di 62 anni carico di rotoli di scottex confessa che il guadagno per ogni viaggio tra Europa e Africa è di circa 10 euro e che ogni giorno riesce a compierlo quattro o cinque volte ma dipende; ha la faccia stanca e segnata dal lavoro.

Melilla, Spain – A group of “portadores” proceeds towards the custom transporting whatever object

Dietro di lui un uomo dal passo incerto si aggrappa ad un compagno, toglie gli occhiali scuri rivelando due fessure: le pupille bianche, opacizzate dalla cecità sono incorniciate da un volto sfinito e da una lunga cicatrice sulla guancia destra. Juan Antonio Martin Rivera, l’addetto stampa della Policia Nacional, mi rivela che alcuni di questi portatori sono spagnoli residenti a Melilla che senza la speranza di un lavoro sono costretti a fare questo per sopravvivere. Nel 2016 la città ha fatto registrare il più alto tasso di disoccupazione in Europa insieme alla sorella Ceuta, rispettivamente 69,1% e 63,3%, la maggior parte dei cittadini è impiegata negli uffici pubblici e riceve un sussidio affinché rimanga residente nell’enclave.

Melilla, Spain – A “portador” uses a mini skateboard in order to transport his load in Morocco. During each travel “portadores” transport loads ranging from 20 to 50 kilograms. On paved road they are used to help themselves by means of these mini skateboards

Seaheaven, la città nella quale è ambientato “The Truman show”, è circondata da una bolla di cemento e acciaio dalla quale non si può né uscire né entrare, il giorno e la notte sono artificiali così come il mare ed i fenomeni atmosferici. Tutto è deciso in maniera arbitraria da Christof, il regista-burattinaio del programma televisivo. Come quest’ultima, Melilla è stata recintata agli inizi degli anni ’90 per cercare di fermare o diminuire il flusso migratorio proveniente dai paesi dell’Africa Sub-sahariana. Attraverso le enclavi spagnole scorre infatti la “Western Mediterranean route” (Frontex), una tratta percorsa nel 2015 e 2016 da un totale di 30.000 migranti. La particolarità di questa rotta è che non prevede l’attraversamento in barca del Mar Mediterraneo, molto rischioso e costoso. I migranti che non posso permettersi economicamente di pagare i 1000-2000 euro agli scafisti percorrono questa rotta, sono dunque i più poveri tra i poveri, i più disperati tra i disperati.

Melilla, Spain – The boundary dividing Spain and Morocco is made up of 5 barriers. The first fence is barbed (two metres high), the second one is controlled by the Moroccan army (five metres high), the third one leans towards the outside (six metres high), the fourth is Spanish and it is composed by a thin wire mesh, the last one is a police human barrier (Guarda Civil)

Così affermano due ragazzi della Guinea di 18 e 19 anni, arrivati in Marocco in gennaio ed entrati in Spagna ad aprile dove devono rimanere per un totale di sei mesi prima di essere trasportati nella penisola iberica. Camminano sotto l’impressionante recinzione che delimita l’Europa e mi domando cosa provino ora a stare liberamente sotto quella che fino a poco tempo fa rappresentava il confine tra la sofferenza e la libertà.

«Quieres una foto?» dice Juan Antonio Martin Rivera, dell’ufficio stampa della Guardia Civil: un uomo robusto, senza divisa, con l’aspetto da capocantiere appassionato al vino. Mi mostra orgoglioso la recinzione nel Pino de Rostrogordo, il punto più a Nord dove acciaio e filo spinato terminano a strapiombo sul Mar Mediterraneo. Le barriere di separazione sono così composte: una prima recinzione di 2m circa coronata da filo spinato con pattuglie dell’esercito marocchino ogni 500m, un fossato profondo circa 5m, una seconda recinzione marocchina strapiombante e spinata alta 6m ed una spagnola della stessa altezza verticale fatta di una rete così fitta da oscurare il sole, infine la Guardia Civil che controlla il confine con telecamere e sensori di movimento.

La domanda sorge spontanea: con così tanti controlli, ostacoli e pericoli come è possibile che i migranti sub-sahariani continuino a saltare le recinzioni? Come già scritto vi ricordo che… tutto è deciso in maniera arbitraria…

Melilla, Spain – the panoramic from the northermost point of the the city. The spanish fences, close to the Rostrogordo’s pine, stop in front of Mediterranean Sea. Here a Moroccan barrack checks out the surroundings

Melilla è una città spagnola immersa in territorio marocchino che non produce, che non esporta, che non ha potere. In questo angolo di Europa, è il Marocco a comandare. L’esercito marocchino sa benissimo dove i migranti vivono prima di tentare il salto, riesce a controllarli e a bloccarli, solo che non sempre lo fa. Usa questo flusso migratorio per gestire la pressione sull’enclave e quindi sul governo spagnolo e sull’Europa; la città e il suo CETI (Centro temporaneo per migranti) sono sovraffollati e nuovi arrivi equivalgono a nuovi problemi. Quando gli accordi tra i due stati sono solidi e fruttuosi in centinaia tentano il salto e non uno riesce a passare (800 hanno tentato di entrare a Ceuta il 4 Luglio 2017 e nemmeno uno è passato), quando invece il Marocco vuole chiedere qualcosa al governo Spagnolo come aiuti economici, agricoli, lasciapassare per i portadores ecc.. le maglie si aprono e i migranti riescono ad entrare.

Melilla, Spain – A couple of lovers watches the sea from the northernmost point of the city. People are used to watch the Mediterranean Sea where separation fences stop

A Melilla la Vieja nel frattempo la visita guidata si è conclusa, Josè congeda i visitatori ricordando che, se anche la città ha dovuto affrontare varie angherie nel corso dei secoli loro rimangono e rimarranno sempre spagnoli. I turisti tornano nei loro alloggi soddisfatti portando con sé il ricordo di una città serena, pacifica e tranquilla. Il fatto è “che crediamo nella realtà per come ci viene presentata” (The Truman show) senza spingersi oltre, senza ricercare una nostra più profonda, più vera e personale Verità. È tempo che ognuno di noi capisca in che mondo viviamo e si renda conto che siamo condizionati da ciò che ci sta attorno e da chi vuole renderci sordi e cechi di fronte alla realtà.

Previous6/48NextMelilla, Spain – A basketball court. On the right the Beni-Ensar Moroccan harbour, on the left the Spanish harbour. It is a free port on which import duties and taxes are not applied

In ognuno di noi c’è una parte di Truman Burbank ma con consapevolezza e determinazione possiamo fuggire da questo sistema e tornare ad essere liberi.

 

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Racconto di un viaggio nella Norvegia occidentale

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di Alessia Cortese

Vagabondare in auto tra fiordi, cascate e ghiacciai, lungo scogliere che si gettano sul mare, attraverso villaggi, pascoli e porticcioli. Perdersi nel silenzio dei boschi, godere in adorata contemplazione della forza selvaggia della natura, e sorprendersi a sorridere di tanta bellezza.

È il mese di maggio, il nostro viaggio ha inizio da un centinaio di chilometri a sud di Oslo. Dopo molte ore di strada, nasi incollati ai finestrini mentre il paesaggio cambia di volto, percorriamo la penisola per raggiungere Garmo, prima tappa del nostro tour tra i fiordi occidentali. In quest’angolo di Norvegia, gli scenari sono sconfinati, strade panoramiche si affacciano sulla quiete di profonde valli, e risalendo, attraversano montagne innevate. La costa avanza maliosa, sferzata dall’oceano spesso burrascoso, e protetta da altipiani verdissimi, manna per occhi insaziabili. In una tipica casa di legno di colore rosso, che profuma di usanze antiche, vola via la prima notte in terra scandinava.

Pieni di un entusiasmo strabordante, guidiamo in direzione della Trollstigen, situata a sud di Åndalsnes, e recentemente dichiarata Strada Turistica Nazionale. La Scala dei Troll serpeggia vertiginosa tra spettacolari cascate, tra cui l’impetuosa Stigfossen, fino in cima a una piattaforma panoramica che offre una visuale mozzafiato sulla valle sottostante. Risaliamo a piedi il tragitto, il tempo è grigio e ventoso, ma la vista che si gode dall’alto, aperta sugli spazi sterminati del Parco Nazionale di Reinheimen, ci ripaga del sacrificio. Pochi altri viaggiatori si vedono in lontananza. Quel contrasto perfetto tra la furia dell’acqua e l’incedere calmo della terra che la lambisce, è solo per noi.

Alesund

Sotto un cielo che, in questo periodo dell’anno, non perde mai la luce, ci attende Kristiansund, storico centro noto per la pesca e l’essiccazione del merluzzo, poi una scorrazzata sull’Atlanterhavsveien (la Strada sull’Atlantico), 8 km di ponti che si snodano flessuosi tra diciassette isolotti. Una passeggiata lungo un percorso pedonale sospeso, nei pressi di Eldhusøya: il paesaggio è lunare, l’oceano riposa calmo sotto le nuvole che lo sovrastano.

È la volta della sofisticata Ålesund, città portuale completamente distrutta da un incendio nel 1904, e ricostruita in un elegante stile art nouveau. Attraverso 418 gradini che risalgono la collina di Aksla, dal belvedere di Kniven si gode di un panorama incantevole. La cittadina si specchia sul mare, circondata da isole e montagne nevose. Per le silenziose vie del centro, la gente procede lentamente, come a porgerti un invito per un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato. Ultima delizia della giornata, una zuppa di pesce con vista sul porto, autentica esplosione di sapori e di colori.

Dall’antico molo vichingo di Hellesylt, un battello conduce lungo i 20 km del sinuoso Geirangerfjord, nelle cui acque verde smeraldo si riversano quelle di scroscianti cascate – le Sette Sorelle, il Pretendente, il Velo della Sposa – e le cui scogliere si ergono maestose e punteggiate di vecchie fattorie abbandonate. Il volo dei gabbiani fa da cornice a un’emozione che è già memoria.

Geirangerfjord

Al Boyabreen Glacier, situato nelle vicinanze di Fjaerland, nota come la Città del Libro, il sipario si apre su una lingua glaciale che si specchia su un lago, il cielo è cinereo e scende una pioggia leggera che conferisce alla scena una surreale solennità.

Navigando il Sognefjorden, il secondo fiordo più lungo del mondo, l’occhio si perde tra pareti a picco, mentre più in là, il litorale si addolcisce, una veduta bucolica di prati e fattorie. Dal villaggio di Flåm, ci immergiamo nel blu del Nærøyfjord, lungo 17 km e largo appena 250 m nel suo punto più stretto, fino a giungere a

Gudvangen, pittoresco mucchio di case e capanni di pescatori. Dal punto panoramico di Stegastein, una struttura biomorfa in legno di pino, la veduta lascia ancora una volta senza fiato: tra l’azzurro del mare e del cielo, corre il verde brillante dei costoni verticali, sulle cui estremità si distendono matasse di nuvole.

Il tramonto ci sorprende a Bergen, ultima fermata del nostro road trip. La baia è tinta di rosa, nell’aria un odore salmastro e il rumore di vita che viene dai caffè lungo il molo. In questo fazzoletto di mondo, ci si sente a casa. Bergen è vivace, dinamica, circondata da bellezze naturali di inestimabile valore, cui si unisce una fremente realtà culturale e un invitante panorama gastronomico. Si viene rapiti dal suo aspetto ammaliante, camminando per il mercato del pesce, su per le stradine che si inerpicano sulla collina, lungo i vicoli del quartiere storico di Bryggen, dove si respira un’atmosfera intima, luogo ideale di artisti e artigiani.

Bergen

Siamo pronti a ripartire. Non c’è stanchezza, corpo e mente sono sazi. La bellezza purifica, la natura rende liberi. Il Grande Nord sorprende e affascina, si prende una piccola parte di te, il viaggio dà occhi nuovi e storie da raccontare.

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Transiberiana: un viaggio attraverso la cultura russa

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La tanto attesa e temuta transiberiana. Ne avevamo sentito parlare, avevamo visto i video, ascoltato i racconti di chi, prima di noi, l’aveva vissuta. Non ci avevano detto, però, che nessun racconto avrebbe dato mai giustizia a quello che avremmo affrontato.

Un indimenticabile viaggio lungo percorsi e spazi interminabili: le grandi città, i boschi, i laghi lungo tutta la Russia, l’immensa Siberia, la Mongolia e la Cina. Una linea ferroviaria che da Mosca si dirama in due direzioni: verso Vladivostok (oltre 9000km) e verso Pechino (circa 6000km).

Arrivati alla stazione dei treni, Ekaterina ci lascia davanti ad uno di questi dove vediamo la Provodnitsa, la signora addetta alla tutela del vagone e dei suoi ospiti, già pronta a controllarci il biglietto e il passaporto. Saliti sul treno, lo scenario non era tanto diverso da quello immaginato: le cuccette stavano già per farsi accaparrare da famiglie, pendolari, viaggiatori che come noi, si preparavano all’imminente traversata.

Una volta sistemati gli zaini usando la tecnica del tetris, scopriamo che io e Matteo non saremo nello stesso scomparto. Se una volta ci saremmo spaventati o preoccupati, questa volta sarebbe stato diverso: la cordialità dei nostri vicini di branda avevano spazzato dubbi e timori. Il primo di loro a fare amicizia con noi è stato Serjey, uno studente russo che fortunatamente, avendo studiato un po’ d’italiano, ci introduce in punta di piedi verso questo mondo così riservato e diverso dal nostro. Lui è in viaggio con la mamma, hanno davanti a loro ben due giorni di treno da affrontare e li vediamo intenti a procurarsi l’occorrente per passare la notte. Ed è qui che arriva il divertente interrogatorio: chi siamo, da dove veniamo, perché affrontiamo questo tipo di viaggio, cosa ci porta a compiere un’impresa simile, il tutto condito da parole a noi incomprensibili ma che, con qualche sorriso e Spassiba (“grazie” in lingua russa) di troppo, riusciamo ad apprezzare.

La notte è lunga e la Provodnitsa passa di letto in letto a lasciare lenzuola e asciugamani per poter adibire al meglio la propria tana. Il treno tace. È una situazione surreale. Si sentono solo i movimenti delle coperte, il russare, qualche pianto di bambino, i tintinnii dei bicchieri da tè.

Ogni treno è diverso e unico. Ha un suo carattere, rivela cose degli uomini e delle terre che gli altri ti nasconderanno, solo perché non era il momento giusto per fartele conoscere. La mattina giunge in fretta, i primi sbadigli, l’odore del the sorvola nell’aria e Matteo arriva a svegliarmi, scrollandomi delicatamente il braccio. Scendere giù dalla cuccetta di prima mattina risulta un po’ traumatico ma niente che non si possa risolvere con una tazza di the e dei mini croissant.

Nina, la mamma di Serjey, seppur parlando solo in lingua russa, si avvicina a noi donandoci una barretta di cioccolato. Imbarazzati e impreparati davanti a questa gentilezza continua, ci stranisce quando, qualcuno che non conosci, soprattutto se di una cultura differente dalla tua, spontaneamente si appresta a darti quello che ha. La giornata trascorre piacevolmente e, tra una fermata e l’altra, Serjey ci racconta della sua passione per la storia, delle amicizie avute con ragazze italiane durante gli scambi culturali e ne approfittiamo, così, per farci spiegare le diversità tra linguaggio russo e quello italiano.

Perché non farlo sfruttando l’alfabeto?

Ok, possiamo dirlo. È un totale caos e a meno che tu non abbia familiarità con il greco antico, apprenderlo risulta davvero difficile.

Il cambiamento culturale è un po’ come il cambiamento continuo che si vede dal finestrino del treno: se prima scorrevano solo case, mura dalle tonalità grigie e tristi, ora è tempo del paesaggio naturale, dalle continue betulle, al verde che predomina su tutti gli altri colori.

Anche le persone cambiano costantemente ed è la volta di due ragazzi russi, uno di 21 anni che non parla molto ma non si fa problemi a dividere il suo pane e ad offrirci un bicchiere della sua birra, e l’altro ragazzo, Ivan, di 30 anni, che dopo qualche battuta e risata, ci lascia assaggiare i Pirozhki preparati da sua moglie: dei fagottini caldi farciti di patate, carne e cipolla. Le continue condivisioni non mancano, Serjey e gli altri ci dicono a parole loro che oramai gli stiamo a cuore e preoccupati ci chiedono se abbiamo tutto l’occorrente tecnico per affrontare il freddo siberiano e quello mongolo. Dopo averli rassicurati raccogliamo i nostri zaini, la successiva fermata sta per giungere e le emozioni sono di nuovo in subbuglio.

Credo che non ci faremo mai l’abitudine: la frenesia, la gioia che ci pervade anima e corpo, ci rende entusiasti di ogni piccola azione, ci fa comprendere come tutti possiamo essere amici senza pregiudizi, fregandosene delle barriere linguistiche. Siamo tutti uguali dal punto di vista emozionale e sapere che, esperienze come queste, te lo confermino solo.. beh non possiamo che esserne grati ed impazienti per la prossima avventura e conoscenza che ci porterà questa locomotiva in uso da così tanti anni.

Lungo il percorso le città siberiane come Kazan, Novosirbisk e Irkutsk, il quale da accesso al lago Baikal, il più grande lago del mondo, lasciano il posto ai paesaggi di montagna, deserti e steppe che da Ulan Batoor, capitale della Mongolia, attraversano il deserto del Gobi. Per giungervi, il treno da addio alla Siberia in direzione sud, lasciandoci godere un primo assaggio di vera Asia: Ulan Ude che dal ‘700 entrò a far parte della Russia, quando le terre del Baikal furono separate dal confine mongolo. Concludendo con l’arrivo alla capitale della Cina, l’antica e frenetica Pechino o per i nostalgici, Beijing. Il percorso è percorribile anche da qui all’indietro attraverso vari fusi orari prendendo il nome di transmongolica.

 

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Dieci giorni in un hotel a tre stelle a Tenerife

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di Giacomo Proia

Il finestrino del taxi che mi scarrozza dall’aeroporto all’albergo inquadra una terra bruna, priva di vegetazione, escludendo le pittoresche piante grasse che decorano i lembi di terra appena sopra il guard rail. La cresta irregolare del vulcano Teide, coperta parzialmente da qualche nuvola, sorveglia le colline che si abbassano progressivamente fino al mare. Questo paesaggio quasi lunare è sconvolto da enormi cartelloni pubblicitari variopinti che ti invitano a prenotare la tua visita a parchi acquatici, safari e discoteche. Ad Arona, costa sud occidentale dell’isola, alberghi che sembrano ospedali o navi da crociera nascondono il mare dallo sguardo fresco del turista. L’urbanistica casuale è confermata dagli edifici che si stagliano sulle colline, che sembrano essere stati gettati come un mucchietto di sassi da un gigante.

Siamo nella zona maggiormente turistica di Tenerife, quella del divertimento e del relax, quella delle centinaia di alberghi, dove è difficile trovare qualcosa di simile ad un’abitazione privata. La zona dell’isola più caratteristica è certamente quella a nord, dove i villaggi antichi e le attrazioni naturalistiche sono intatte e pronte a placare i turbamenti del turista più avventuroso e contemplativo. Ma io non ho cercato spiagge incontaminate da filtrare su Instagram, non ho camminato a piedi nudi, non ho visto albe o tramonti. Dal momento che ho sentito dire che un’esperienza non condivisa non è una vera esperienza, e comunque non l’avrei condivisa, ho preferito non farla affatto. Ho trascorso dieci giorni nella piscina dell’albergo.

L’hotel fa parte di una grande catena internazionale e si palesa come un prepotente blocco di architettura pseudo brutalista da quindici piani. Un semicerchio di bandiere da tutto il mondo accoglie il mio taxi nel cortile, confermando la vocazione al turismo globale della catena. La hall è disseminata di foto di gente di tutte le età che sembra davvero felice, circondata dai nomi di tantissime capitali mondiali in font “spiritosi”.

Quando alla reception la tipa poliglotta mi ha messo al polso un braccialetto di plastica celeste non avevo idea del lieve senso di frustrazione che quell’oggetto mi avrebbe procurato durante tutta la vacanza. Il famigerato bracciale è un segno distintivo che serve allo staff per identificare subito il mio status sociale all’interno della struttura, ovvero quello di povero. Mezza pensione, accesso alla piscina, bevande a parte al ristorante e bar a pagamento. Appena vedo un tedesco con il braccialetto lilla un senso di invidia di classe si fa largo tra la fame e la spossatezza. Il braccialetto lilla è quello dell’all inclusive, delle bevande comprese al ristorante e dell’open bar h24. Gli abbienti detentori del suddetto bracciale possono andare al bar della piscina e fare scorta di qualsiasi cosa, bibite alcoliche e analcoliche, hamburgers e ogni genere di schifezza. Fino a qui tutto nella norma, l’invidia di classe è gestibile, almeno fino a quando mi accorgo che nel buffet anche l’acqua è da pagare a parte. I lilla si muovono indisturbati nella zona bevande del ristorante e fanno scorta di birre, acqua e bibite zuccherate, mentre io dovrò pagare un euro e sessanta cent per ogni bottiglietta d’acqua. Per i primi pasti ne ho rubata sempre una da 0,5 l a temperatura ambiente, ma poi mi sono accorto che gli sguardi dei lilla, in particolare di quelli tedeschi, si facevano sempre più minacciosi. Anche i camerieri affaccendati se ne sono accorti e ogni volta sostituiscono la mia bottiglietta vip con un’altra, accompagnata da una ricevuta da pagare alla cassa. Questa speculazione sulla sete ha mosso il mio sdegno che non mi ha abbandonato per tutto il soggiorno.

Riesco tuttavia a consolarmi con i generosi buffet che offre il ristorante dell’albergo, un salone enorme che ricorda una mensa scolastica, ma meno mensa scolastica, forse più aziendale. Il menu propone cucine tipiche di varie nazioni, sempre per non venire meno alla politica internazionalista della catena.

Nel dettaglio il buffet comprende: carote, rape, cavoli, insalata, pomodori, broccoli, cavoli, olive nere e verdi, peperoni, spinaci, mais, fagioli, insalata russa, fagiolini, capperi, cipolline, cetriolini, cous cous, tacos, chili, sushi, pane bianco, pane integrale, pane tostato, rosette, ciabatte, pane di segale, hamburger, bistecche di manzo, roast beef, hot dog, costate di maiale, pollo piccante, pollo al curry, polpette, salmone, baccalà, orata, tonno, fettine panate, cannelloni che sembrano lasagne, pasta condita con salsa di pomodoro e salsa carbonara, nuggets di pollo, anelli di cipolla, bocconcini di merluzzo fritti, zucchine fritte, patatine fritte, carciofi fritti, patate al forno, parmigiana di melanzane, funghi, riso basmati, risotto ai funghi, pizza margherita, pizza al tonno, pizza ai funghi, involtini primavera, riso alla cantonese, uova alla coque, uova sode, frittata, paella di carne e di pesce, formaggio emmental, ricotta, feta, mozzarella, prosciutto, tacchino, mortadella, salame, verdure grigliate, verdure al forno, tiramisù, bignè, torta di mele, torta sacher, torta al whiskey, torta al cioccolato, torta black forest, mousse, gelatina, gelato, uva, banane, cocomero, melone, mele, prugne, pesche, albicocche. L’acqua non è compresa.

Ogni volta che ne ho la possibilità mi piace fare colazioni salate, come gli stranieri. Quale migliore occasione con un tale buffet mattiniero degno di quello serale. Un giorno si e uno no, fiero, mangio pane tostato con prosciutto o bacon e un po’ di uova strapazzate. Una volta ho anche fotografato il mio piatto. Tuttavia durante le colazioni nel mio albergo ho provato spesso un senso di disgusto guardando i piatti degli altri ospiti, per la maggior parte inglesi, irlandesi e tedeschi. Una mattina stavo per abbandonare la colazione alla vista del piatto della mia vicina di tavolo: cinque fette di bacon, fagioli con una strana salsa rossastra, tre grandi salsicce, tre fette di pane tostato, due uova occhio di bue e per finire due grandi anelli di cipolla fritti. Ho dimenticato di specificare che la mia vicina è palesemente sovrappeso.

La fauna che popola la piscina dell’albergo mi ricorda i gruppi di ippopotami che stazionano inerti nei laghetti degli zoo. Tutti sono fermi, ogni tanto si bagnano e si muovono solo per prendere cibo e bevande al bar. Ho notato che tutte le persone che leggono mostrano sempre delle copertine di libri molto vistose, con colori accesi e titoli in formato extra large. Non c’è nessuno che legga libri dei quali non sia possibile capire da pochi metri titolo e autore. La stessa osservazione potrebbe essere fatta benissimo su una qualsiasi spiaggia, ma il discorso sarebbe lungo e fuorviante.

Gli animatori dell’albergo entrano in azione in tarda mattinata, e con comunicati multilingua informano gli ospiti delle attività della giornata, utili a non farti pensare a nulla, soprattutto al fatto che la tua misera vita ricomincerà tra pochi giorni. In genere si inizia con attività fisiche come aqua-gym, aqua-spinning, aqua-zumba, e si finisce nel primo pomeriggio con un torneo. In dieci giorni l’unico torneo che ho visto è quello di dardos, le freccette, di cui i britannici chiassosi sono appassionati. I suddetti pallidi ospiti bevono birra dalla mattina alla sera e ridono a crepapelle per qualsiasi stronzata accada a qualcuno della loro comitiva. Li ho visti scompisciarsi a lungo per un rumoroso coppino dato da un tizio ad un altro.

Gli animatori non sono molto insistenti al contrario dei loro omologhi italiani: ti chiedono gentilmente se vuoi partecipare, e in caso di rifiuto ti salutano augurandoti una buona giornata, non ti bollano come noioso-triste-pigro urlandolo a tutta la piscina. Le attività fisiche sono molto frequentate, forse gli ospiti vogliono giustificare la prossima abbuffata tutto compreso facendo dei goffi movimenti aerobici dentro l’acqua, cercando di imitare quelli accademici degli animatori, dai fisici atletici e abbronzati, forgiati da intere stagioni di aqua-gym.

Ho visto delle pance talmente grandi da minare costantemente l’equilibrio dei rispettivi possessori. Addomi lisci e sproporzionati, modellati da birra, bacon, patatine e coca cola. Pance durissime piene di aria e residui di cibo mal digeriti da intestini iper sollecitati dal continuo ingozzarsi. In genere sono i detentori del braccialetto lilla che mostrano le trippe più importanti, sono loro che si prodigano in continui andirivieni dal bar, carichi di vettovaglie.

All’ingresso dell’albergo si nota una fila di scooter elettrici a quattro ruote, sono quelli parcheggiati dagli anziani che soggiornano in albergo. Se si fa una passeggiata diurna sul curato lungomare di Los Cristianos ci si può imbattere in decine di anziani a bordo di questi scooter a quattro ruote. Li vedi che si spostano felici da una spiaggia a l’altra, sono loro i padroni. Solo al mio rientro in Italia ho scoperto che sono moltissime le persone che decidono di trascorrere la terza età proprio a Tenerife, sia per la convenienza economica, sia per il clima mite tutto l’anno. A mio avviso è proprio il clima che ha trasformato questa terra aspra in una zona a vocazione esclusivamente turistica, un immenso baraccone mangiasoldi. Quando sembra che il sole settembrino inizi ad essere troppo insistente, ecco che una soffice brezza atlantica interviene a donare benessere. La stessa brezza, durante le ore notturne, mi ha fatto dormire sonni profondi come non mai.

La notte, appunto. Il lungomare di Los Cristianos, che di giorno è affollato dagli scooter a quattro ruote, la sera si svuota. Emblematica la scena in un ristorante all’aperto, con soli quattro clienti che ascoltano un uomo che canta Impressioni di settembre accompagnato dalla base MIDI di una tastiera da matrimonio. Ho scoperto che tutti i giovani che pensavo fossero assenti da Arona, al tramonto iniziano a popolare la zona di Las Americas. Il barista dell’albergo, mio connazionale, ogni volta che vado a prendere da bere durante lo spettacolo serale dell’animazione mi chiede resoconti sulla mia vita notturna, che a quanto pare a Tenerife non può non essere sfrenata. Ci tengo a precisare che il barista è milanese; questa delucidazione sarà utile al lettore per leggere le frasi virgolettate seguenti con un fastidioso e spiccato accento meneghino. Mi ripete in continuazione che a Tenerife “Puoi fare ciò che vuoi”, ogni sua sentenza è riferita al mio presunto sballo della sera prima “Ieri sera? Fatto danni?”, o ai bagordi che secondo lui mi attendono per la serata in corso “Stasera? Si fa baldoria?”. Una domanda che mi ha particolarmente irritato è stata: “Hai fatto i numeri ieri sera?”.

Nella zona della spiaggia di Las Americas ci sono strade zeppe di disco pub adiacenti per non dire appiccicati, ognuno dei quali ti aggredisce per strada con musica commerciale assordante e fastidiosi PR che provano in tutti i modi a farti entrare, azzardando promesse a loro detta irrinunciabili. Ad uno particolarmente insistente ho fatto capire con un gesto seccato che stava esagerando. Quando ha compreso le mie origini italiane si è scusato tempestivamente, come se tra i suoi compiti di PR non ci fosse quello di fregare gli italiani, i fregatori per antonomasia. Dopo le scuse mi ha comunque invitato ad entrare nel locale con la promessa di un chupito gratuito. Il fatto è che questi locali non hanno bisogno solo dei tuoi soldi, ma anche della tua presenza fisica, da utilizzare come garanzia di divertimento per i passanti che ti vedranno da fuori. Un locale con gente chiama gente, uno vuoto no. Perciò questi disgraziati armati di bigliettini ti trattano come se tu fossi la persona migliore del mondo, si avvicinano e fanno qualche passo accanto a te, chiedendo della tua provenienza e meravigliandosi e congratulandosi qualunque sia la tua risposta, Stati Uniti o Tagikistan.

Questi disco pub sembrano competere sulla scala dei decibel. Dato che sono letteralmente incollati tra loro, l’effetto acustico dalla strada è quello di un caos poliritmico stordente, che sembra potersi dissolvere solo scegliendo di entrare in uno dei locali. La maggior parte dei clienti sono inglesi e irlandesi. In gruppi di due o tre, si avvicinano agli sconosciuti, armati di sorrisi sdentati, guance rosse e lentiggini, e urlano frasi sconnesse con l’obbiettivo di condividere con chiunque la loro estasi alcolica. Le televisioni dei disco pub non smettono mai di trasmettere partite di calcio. Nella baraonda generata dai ragazzi che vomitano, si baciano e cadono per terra, mi sono soffermato a guardare una bella partita valevole per i quarti di finale dell’Asian Champions League, tra Al-Ahli, squadra degli Emirati Arabi e Persepolis, compagine iraniana che vincerà 3 a 1.

Le discoteche vere e proprie sono molto diverse dai disco pub: qui manca un po’ di spontaneità, tutti sembrano aver paura di fare un movimento di troppo o una risata scomposta; la maggior parte delle persone, ben vestite, sostano sul posto lasciando che la testa ondeggi e che gli occhi guardino intorno con il campo visivo più ampio possibile, per intercettare eventuali partner amorosi. Manca quella genuinità del disco pub, dove somigliare ad un macaco non rappresenta un problema reale per nessuno. In discoteca pochi accennano movimenti più appassionati, a volte anche con gli occhi chiusi, scossi da una techno che definirei allarmante, come la musica di una scena di inseguimento.

I buttafuori non sorridono. Mai.

Una cosa che mi ha sconvolto non poco è che nei bagni delle discoteche ci sono sempre dei tizi che accolgono gli avventori dei cessi a parete: distribuiscono il sapone premendo sul dispenser e poi forniscono un pezzo di carta per asciugarsi le mani. Queste persone fanno questo mestiere: trascorrono ore nei bagni maleodoranti di una discoteca e distribuiscono sapone e carta agli ubriachi che si lavano le mani dopo aver orinato. La cosa agghiacciante è che quando lo fanno sorridono e addirittura lanciano battute.

Non ce la faccio ad affrontare il popolo della notte più di tre volte. Meglio godersi i miserabili spettacoli serali dell’animazione, facendo credere all’intransigente barista che si uscirà più tardi a fare casino.

Sono tornato in Italia grasso e raffreddato, chiedendomi perché nonostante ci siano tanti posti belli nel nostro paese che non conosciamo, siamo sempre spinti a cercare l’esotico e il lontano. In effetti le cose che ho fatto a Tenerife, sdraiato all’ombra in piscina, o nelle discoteche in mezzo agli inglesi sbronzi, avrei potute farle anche in Italia, a Cesenatico per esempio.

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