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Channel: Racconti di viaggio Archives - The Trip magazine
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In vespa tra le capitali del barocco siciliano

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verso Ispica

Cinefili, vespisti, viaggiatori, curiosi e amanti dell’arte e della buona cucina preparatevi: ce n’è per tutti.

Basta sbarcare sull’isola, indossare un casco e lasciarsi scarrozzare dai Vespi siciliani alla scoperta dei gioielli del barocco, tra degustazioni di prodotti tipici e visite alle location che i grandi registi scelsero per i loro film, come Divorzio all’italiana, che Pietro Germi girò proprio a Ispica.

Girovagare tra muretti a secco, uliveti e incantevoli cittadine incastonate tra i Monti Iblei e il Mediterraneo a bordo di rombanti vesponi, rigorosamente d’epoca, è senza dubbio un’esperienza straordinaria. E le proposte non mancano: dall’escursione a Noto con passeggiata nella tonnara di Marzamemi e birdwatching nell’oasi naturale di Vendicari, al suggestivo Ricotta’s Tour che, sulla strada per Portopalo di Capo Passero e Porto Ulisse, intercetta un’azienda agricola che produce il famoso formaggio e altri piatti tipici. Per gli ammiratori del celebre commissario c’è la gita Sulle vie di Montalbano che include le località di Punta Secca, Marina di Ragusa, Sampieri e Pozzallo.

Appassionati ed esperti conoscitori della propria terra, i giovani ideatori dei vespatour investono tutte le loro energie per valorizzarne l’incredibile varietà e ricchezza e recentemente hanno lanciato anche la linea di prodotti alimentari Scirocco Sicily, che seleziona con cura i migliori ingredienti locali e le ricette artigianali del ragusano.

Come è nata l’idea dei Vespi siciliani?

Prendendo in prestito una terminologia che appartiene al lessico del marketing, potremmo dire che i vespi siciliani è la brand identity della nostra associazione. L’accostamento di questi due vocaboli incarna perfettamente la mission che ci siamo preposti ossia utilizzare la Vespa, mezzo conosciuto in tutto il mondo e orgoglio del made in Italy, quale volano per la promozione e valorizzazione del nostro territorio nella sua accezione più ampia. I vespi siciliani è nato nel 2011 come denominazione del primo evento da noi organizzato, in quanto identificativo di quello che sarebbe stato il nostro modus operandi ed è poi diventato il leitmotiv di tutte le attività da noi proposte.

Cosa organizzerete in occasione del raduno regionale e nazionale che si terrà in Sicilia a giugno?

L’evento I vespi siciliani – Profumo, che si terrà il 28 giugno 2015, sarà un viaggio on the road alla scoperta delle peculiarità enogastronomiche e delle amenità paesaggistiche ed architettoniche comprese tra i territori di Ispica (RG) e Noto (SR). La prima tappa di questa esperienza sensoriale sarà Ispica, città in cui Luigi Capuana visse per un breve periodo e in cui ambientò il suo famoso romanzo “Profumo”, con i suoi edifici liberty, le chiese barocche e l’area archeologica di Cava Ispica. Il corteo di Vespe muoverà poi in direzione Noto (SR), patrimonio Unesco e perla del barocco con i suoi imponenti monumenti civili e religiosi scanditi da affreschi, mascheroni apotropaici e andamenti sinuosi tipici di quel contesto artistico culturale. È inoltre previsto un momento conviviale a base di piatti tipici del Val di Noto presso la splendida cornice di Villa Eleonora, già location di uno spot che il regista Giuseppe Tornatore ha realizzato per una nota casa di moda.

Quali sono i prossimi eventi in programma per la rassegna Ispica da Oscar?

Ispica da Oscar è un altro brand che abbiamo creato a riprova di un’attività di promozione del territorio ad ampio respiro. Ispica è infatti l’immaginaria Agramonte del film premio Oscar Divorzio all’italiana, con la regia di Pietro Germi. Partendo da questo dato, si è pensato di poter intercettare quel flusso in forte ascesa conosciuto come “cineturismo” e che in provincia di Ragusa ha avuto il suo elemento trainante nel successo della fiction Il commisario Montalbano. Abbiamo pertanto organizzato due eventi, di cui il primo più incentrato su Divorzio all’italiana e l’altro sulla figura di Pietro Germi, che hanno avuto un ottimo riscontro di critica e pubblico grazie al connubio tra cinema e territorio nonché alla presenza di ospiti importanti quali Lando Buzzanca, Franco Battiato, Paolo Buonvino e la sig.ra Marialinda Germi, solo per citarne alcuni.

Il prossimo progetto in cantiere, cui stiamo lavorando sin da ora, vedrà la luce nell’estate del 2016 e consisterà in un evento che, partendo dal film di Germi, tratterà di un genere che ha consacrato il nostro cinema e i suoi maestri in tutto il mondo: la commedia all’italiana. Riteniamo che tale rassegna, che avrà luogo proprio nella location in cui fu girato il film che rappresenta uno dei frutti più maturi di questo filone, potrà avere un forte impatto mediatico e un notevole ritorno d’immagine per la nostra città e per tutto il territorio.

 

www.ivespisiciliani.it 

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Sulcis in fundo: l’ultima minatrice

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Patrizia, l'ultima minatrice

testo di Federica Araco

«Respira, respira piano. I tuoi occhi presto si abitueranno al buio. Non aver paura, questo è il nostro mondo. È casa tua».

Il vecchio montacarichi, cimelio ancora funzionante degli anni Trenta, cigola e oscilla nel vuoto. La carrucola si aziona e un rumore sinistro ne accompagna la lenta discesa, fino alle viscere della terra. Cinquecento metri in sette minuti.

Quando anche l’ultimo spiraglio di luce viene inghiottito dall’oscurità, la vista ci mette un po’ a orientarsi. Poi, lentamente, si cominciano a distinguere le prime forme: lunghi tunnel scavati nella roccia, grovigli di cavi, tubi per l’areazione, carrucole, pompe ad aria compressa ed enormi macchinari che, come mostri meccanici, ostentano i loro denti, aguzzi e spaventosi.

Tutto è avvolto da una polvere scurissima e da un silenzio surreale, a eccezione dell’inferno, il luogo dove si prende il carbone. Ovunque c’è materiale altamente infiammabile. Nel ventre della montagna non è consentito fumare né portare oggetti eccetto quelli previsti dalla divisa autorizzata: un elmetto con la luce frontale, scarponi pesanti e la tuta da lavoro.

Seduto tra santini e immagini votive, un uomo snocciola i grani di un rosario recitando il Padre Nostro. Le sue mani grandi, segnate dal tempo e dalla fatica, sembrano inadatte a un gesto così delicato. Gradualmente, altre voci si uniscono alla sua novena. Sono quelle dei centocinquanta minatori dell’ultima cava ancora estrattiva della zona mineraria del Sulcis Iglesiente, l’area più povera della Sardegna e del Paese.

Patrizia è una di loro. I suoi muscoli sono addolciti da curve generose e dal rilassamento tipico di chi ha superato la cinquantina. È l’addetta al rilevamento del gas inodore e conosce ogni angolo di quell’enorme città sotterranea, della quale è l’indiscussa regina.

Nipote, figlia, sorella e zia di minatori, è l’unica donna della famiglia ad aver scelto questo faticoso mestiere, e forse l’unica in Italia. Un lavoro secolare che è al contempo orgoglio e maledizione. E che genera un viscerale attaccamento a un luogo buio, insalubre e pericoloso che, però, tutti qui considerano casa.

Stretti tra le pietre, schiacciati tra la polvere e il silenzio, questi eroi dell’oscurità dialogano con i propri cari defunti, tra ricordi e improvvisi bagliori di luci. Molti hanno perso i parenti in quelle stesse gallerie dove, una volta adulti, hanno scelto di lavorare.

La cava ancora estrattiva della zona mineraria del Sulcis Iglesiente, l’area più povera della Sardegna e del Paese la-miniera-del-sulcis-sardegna-babelmed-the-trip-magazine (1)

«La miniera è un luogo incredibile e sconosciuto. Volevo raccontare la vita che vi brulica dentro», spiega la regista Valentina Pedicini, che ha proiettato il suo documentario Dal profondo in una serata de I Racconti del Lavoro Invisibile alla Casa Internazionale delle Donne di Roma.

«Dopo sei mesi di riprese e circa due anni trascorsi nella cava di Nuraxi Figus, nel cuore del Sulcis, sono tornata cambiata. Era l’ultima miniera rimasta in attività, malgrado le continue minacce di chiusura perché considerata in perdita da un punto di vista economico. Ora è dismessa, ma un gruppo di minatori deve continuare a monitorarla perché è a rischio di esplosione finché non verrà definitivamente allagata».

Quando quella realtà sotterranea, teatro di quasi due secoli di storie, lotte, paure e speranze, scomparirà per sempre tra i flutti queste immagini saranno l’ultima testimonianza.

Un lavoro intenso ed essenziale, scaturito dall’incontro tra due sguardi femminili che hanno deciso di svelare, insieme, quell’interregno misterioso nelle viscere della terra dove si vive nell’invisibilità, sospesi tra la vita e la morte.

«Patrizia era tutto quello che cercavo racchiuso in due occhi azzurri e in una vicenda personale e familiare capace di assurgere a modello della storia mineraria declinata al femminile», scrive l’autrice nelle note di regia. «Scendere con lei, anche solo una volta, in miniera, ha determinato lo stile del film. Un film ambientato sottoterra, al buio, dove la natura ostile ha costretto i protagonisti e la troupe a nuove forme di adattamento, […] lavorative e fisiche, […] espressive e filmiche».

Capovolgendo la prospettiva, Dal profondo propone una sorta di narrazione del mito della caverna platonica al contrario. Con le sue inquadrature lente, scurissime, i suoi dialoghi rarefatti ed essenziali, descrive il mondo sotterraneo con tale densità simbolica e affettiva da far apparire la realtà in superficie priva di interesse, artificiale, superflua.

«La miniera crea dipendenza» ammette la regista. «Dopo ventisei giorni passati ininterrottamente al suo interno per girare, con turni anche di quattordici, diciotto ore, non è stato semplice riabituarci al mondo esterno. È un fenomeno strano. Lì sotto manca tutto: l’aria, la luce, lo spazio. Eppure senti di non aver bisogno di nulla».

dalprofondo.lasarraz.com

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La Provenza dal finestrino di una macchina

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Dal Verdon alla Camargue

Dopo una nottata trascorsa a Marsiglia, affitto una macchina e mi dirigo verso Nord-Est, puntando le Gole del Verdon. Inizia così il mio viaggio attraverso le meraviglie de La Provence.

La prima tappa è Aiguines, un piccolo comune di trecento abitanti alle porte del Verdon completamente immerso nel verde. Accosto davanti a una pineta e noto una coppia di ragazzi sdraiati sull’erba, proseguo e più passeggio più gli sdraiati sbucano come funghi. È l’ora di pranzo: tutti mangiano, bevono e prendono il sole. Continuo a camminare e imbocco una discesina di una decina di metri. Senza rendermene conto un infinito lago artificiale color carta da zucchero si presenta davanti ai miei occhi.

È solo un accenno di quello che mi aspetta, quindi mi gusto velocemente il primo pranzo provenzale e proseguo ancora a Nord, verso le Gole.

La chiamano La Corniche Sublime, D71 per i viaggiatori da strada, ed è il tragitto più spettacolare per ammirare il grande canyon d’Europa. Ci si rende conto di averla imboccata una volta circondati da falesie vertiginose e tornanti a perdita d’occhio; spingendomi sempre più su e seguendo da vicino il bordo delle gole noto un susseguirsi di belvederi dai quali scopro le acque del Verdon. Guardo giù come una bambina incuriosita che si copre gli occhi con le mani: l’acqua è cristallina, si intravedono i sassolini che le fanno da letto e il panorama vertiginoso esercita su di me un’attrazione quasi magnetica.

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le Gole del Verdon, il canyon più grande d’Europa

Le Gole del Verdon sono meta ambita per chi ama viaggiare in moto: durante tutto il tragitto vengo infatti accompagnata da diversi gruppi di motociclisti e, alla fine, dopo vari sorpassi e sgasate, ci troviamo tutti sul punto più alto della strada con lo sguardo rivolto verso il basso ad ammirare quell’enorme spaccatura della terra lunga ben ventuno chilometri.

Prosegue il mio viaggio nel cuore della Provenza e decido di fermarmi per la notte a Digne les Bains, un’antica cittadina termale a seicento metri di altitudine incastonata tra la Provenza e le Alpi. Nonostante sia circondata da distese di verde e antiche terme naturali, Digne ha l’aria di essere una cittadina moderna in un luogo dove invece il tempo sembra essersi fermato. È decisamente un’eccezione rispetto al paesaggio che la circonda; un locale aperto dal tardo pomeriggio alle prime ore del mattino apre le porte a questa deliziosa cittadina che pullula di giovani.

Le vie acciottolate della città vecchia sembrano inizialmente spente ma perdendomi tra i vicoli scopro altri locali e un meraviglioso ristorante, Le Chaudron, che consiglio a chiunque passi da quelle parti: cucina a vista con un unico tavolino davanti, la proprietaria è una signora di una certa età vestita in modo buffo ma molto elegante, (davvero molto francese!). I tavoli sono al piano di sopra e la sala ricorda una vecchia cantina, color bianco sporco. Sulla sinistra c’è un piccolo bancone di legno a forma di mezzaluna, indispensabile per offrire agli avventori caffè e cognac. I tavoli sono pochi, la luce è calda e l’ambiente molto intimo. Scelgo senza pensarci troppo le specialità del posto, dalle escargots, condite con una salsa verde a base di erbe aromatiche, a un marmiton di foie gras.

Il Luberon

La mattina seguente mi dirigo verso l’angolo di Provenza dove si respira l’aria più pura d’Europa, il Massiccio del Luberon. È un mondo a parte rispetto alle regioni circostanti e si estende complessivamente lungo ottanta chilometri da Est a Ovest in un’esplosione di colori e odori. Dal verde scuro dei vigneti e il malva pallido e cupo della lavanda non ancora in fiore al celeste accecante delle finestre dei villaggi il Luberon affascina e lascia il tempo di perdersi nei dettagli.

Passo di sfuggita a Cucuron, nella parte Sud, e proseguo fino a Lourmarin, un villaggio segnato dalla stretta e lunga valle che separa il Petit e il Grand Luberon. Un luogo delizioso ma dannatamente turistico. La via principale è colma di botteghe di tutti i tipi ma i vicoli più nascosti mostrano la vera anima di questo posto: giardini privati con lo steccato bianco dove riesco facilmente a intrufolarmi, finestre di tutti i colori e gatti a non finire.

A nemmeno un’ora di distanza c’è Gordes, arroccato in cima a uno sperone roccioso. Arrivando da Lourmarin me lo trovo davanti ancora illuminato dal sole: un concentrato di casette e torri intervallate da enormi pini.

Mi godo un meraviglioso mercato di paese all’insegna di formaggi vini e foie gras e mi riposo nel più bel Bed&Breakfast dove sia mai stata in vita mia, Le Mas de la Beaume.

Gordes

il mercato di Gordes

Gordes è un vero incanto ed è tornato a essere un’attrazione turistica da qualche anno grazie al film Un’ottima annata di Ridley Scott, girato interamente tra i paesini più suggestivi del Luberon. La piazza con la fontana e il ristorante, celebre per la scena magica tra la dea irrazionale Fanny e l’egoista pentito Max, è intima e silenziosa e si è tenuta stretta quel delicato romanticismo che ricordavo nel film.

Complice la suggestione, mi sposto leggermente fuori Gordes a Chateau la Canorgue dove sono state girate le scene del vigneto; il casale è di un ricco produttore di vino che dopo aver prestato le mura per girare il film ha lasciato libero accesso nei vigneti ai più curiosi. C’è un piccolo ristoro dove è possibile degustare i vini da lui prodotti e ammirare da fuori il casale, ovviamente chiuso agli estranei.

Dopo aver bevuto del vero vino provenzale, passo per Bonnieux, Lacoste e Roussillon, tre gioielli della Provenza: Lacoste è un villaggio interamente dominato dalle rovine del castello del marchese De Sade, mentre Roussillon spiazza per i suoi colori, l’arancione delle case si mescola infatti al rosso ocra della scogliera dei Giganti, soprannominata Sentiero delle Ocre.

Lascio il Luberon per dirigermi verso la Camargue.

Lacoste Roussillon

Dopo un paio d’ore di viaggio arrivo ad Arles, una città antica lungo le sponde del Rodano.

Arles ha due facce: guardando il foro, l’anfiteatro e le viuzze strette tipicamente romane si rintracciano i percorsi della storia, ma è anche una città molto giovane e dinamica. La sera i bistrot e i locali si riempiono, i ragazzi gironzolano qua e là e a me sembra quasi di essere tornata a Roma.

Il Parco Naturale della Camargue

Mi accorgo di essere sulla via che mi porta nel cuore della Camargue quando vedo alla mia destra un branco di tori neri e alla mia sinistra dei meravigliosi cavalli bianchi. La cosa sorprendente di questi animali è che qui sono selvaggi, hanno mantenuto la loro libertà e indipendenza.

Questo territorio è piuttosto selvaggio, con ettari di risaie, paludi, sabbia. Il clima è umido e gli insetti non si contano, ma il suo fascino è indiscutibile e dopo averlo assaporato mi dirigo verso le Salin de Giraud. Il borgo è deserto, anche un po’ inquietante per la verità, ma una volta superato mi godo le saline più estese d’Europa. Come al solito i colori prendono il sopravvento: quando il sale inizia a depositarsi sul fondo per effetto dell’evaporazione i bacini si tingono di varie sfumature, dal blu al violaceo al rosso, e lo spettacolo è unico.

L’ultima tappa è la spiaggia di Piémanson, una lingua di sabbia lunga venticinque chilometri frequentata principalmente da naturisti, con molte roulotte e gente a cavallo.

Sembra che tutti stiano qui da sempre.

 

Carmague

Parco Naturale della Carmague, tra il Mar Mediterraneo e i due bracci del delta del Rodano

 

 

 

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Peregrinazioni amorose

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claudia-bena-bagno-vignoni-tappa-11-da-monteriggioni-a-siena-the-trip-magazine

—01
Se cinque anni fa mi avessero detto che avrei organizzato un viaggio del genere, volontariamente…
(Roma)

Io sono pigra. Sono nata pigra. Ma adoro camminare. Questa cosa di mettere un piede davanti all’altro e continuare così mi viene proprio bene. E sono davvero poche le cose che mi vengono bene. Anche organizzare viaggi mi viene bene. Niente di più semplice. Due giorni di vacanza con Davide, il mio compagno. Ne abbiamo organizzati insieme tra partenze improvvise e semplici gite. Un anno e mezzo è volato. Posso dirlo: non sono mai stata meglio. Problemi, scontri, liti, angoli smussati, spigoli presi in pieno, eppure eccoci qua, a sperimentare per la prima volta cos’è l’amore, quello reale, non quello delle favole, nemmeno quello dei libri, che pure insieme ne abbiamo letti tanti.

Questo fine settimana lo trascorreremo camminando. Ma non quel camminare senza meta, con il cervello che ti frulla e il passo svelto e nervoso. Piuttosto un lungo tragitto che ci riempia lo sguardo e ci distenda la mente. C’è questo tratto della Francigena, da Monteriggioni a Siena, che dicono sia uno dei più belli. Passeggiando tra boschi e colline, in circa cinque ore si completa il percorso, l’undicesima tappa indicata da Sigerico. Domani si parte, è tutto organizzato, ma stamattina da una scintilla è scoppiato un incendio. C’è mancato poco che partissi da sola, e finché non saremo in macchina, tra qualche ora, avrò ancora dei dubbi sulla nostra partenza.

—02
Contro ogni aspettativa, partiamo.
(Alle terme)

Partiamo senza rivolgerci la parola. Al secondo prosecco in autostrada iniziamo a scambiarci qualche osservazione. Alla vista della campagna toscana (con campari) iniziamo a distenderci. Arrivati alle terme di Bagno Vignoni smettiamo di odiarci.

Si sta proprio bene alle terme. Il luogo è molto suggestivo: un micro borgo che al posto della piazza principale ha una piscina di acqua sulfurea, oggi non più balneabile, e due impianti termali. Uno più signorile, con vista sulla piazza/piscina, l’altro molto anni Ottanta, con una grande vasca all’aperto che si affaccia sulle verdi colline. Scegliamo il secondo. Siamo solo noi e una coppia di immancabili tedeschi.

L’ho già detto che si sta proprio bene alle terme?

—03
La legge di Murphy.
(Passeggiata notturna)

Il viaggio prosegue e mi rendo conto che per questa storia di doverlo mettere per iscritto non solo mi vengono delle ansie da prestazione, ma quasi niente va come dovrebbe andare.

Riusciamo a litigare anche al ristorante e durante la passeggiata notturna per Siena sembriamo colpiti dalla sindrome di Tourette. Dormiamo male e la sveglia non suona come la solita sveglia delle vacanze. Il sole, però, splende alto nel cielo.

—04
Lei non sa chi sono io.
(Da Monteriggioni a Siena)

Arriviamo dentro le mura, un paio di minuti per visitare tutto il paese, e prima di partire proviamo a entrare nel centro di accoglienza del pellegrino, per avere qualche notizia in più. Dietro al bancone c’è una ragazza che parla al telefono e parla e parla e non smette neanche quando cerco di incrociare il suo sguardo per farle capire che vorrei delle informazioni. Esco indispettita. Respiro, rientro. Ancora al telefono, alzo la voce dicendole che vorrei sapere qualcosa in più sul percorso. Senza smettere di conversare strappa una cartina e me la porge, provo a chiederle delucidazioni e non mi risponde. «Complimenti – le dico – sono qui per scrivere un articolo su questa tappa della Francigena e non mancherò di riportare la sua professionalità». Esco mentre finalmente ha capito che esisto, sta dicendo qualcosa tipo telefonata di lavoro ma ora sono io a non ascoltarla. Ci incamminiamo e sulla faccia ho il sorriso compiaciuto della vendetta trasversale. Davanti a noi ci sono ancora venti chilometri ma ora so che andrà tutto bene: siamo una squadra e giochiamo in casa.

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verso l’antico borgo medioevale di Cerbaia | foto di Claudia Bena

Usciti da Monteriggioni, dopo una breve discesa si sale subito e ci inoltriamo nel bosco. Fa caldo ma siamo all’ombra. Davide ha le gambe molto più lunghe delle mie ma gli sto dietro, tengo il passo e ogni tanto ci fermiamo per fare qualche foto.

Monitoriamo il percorso sull’iPhone, siamo un piccolo puntino blu che avanza lentamente. Il bosco finisce e intravediamo i castelli della Chiocciola e di Villa, purtroppo chiusi. Appartengono a privati che, scopriamo troppo tardi, sono disposti a farli visitare su richiesta. Sul percorso, proprio verso l’ora di pranzo, ci imbattiamo in una piccola zona ristoro allestita dal proprietario della casa accanto. Ci sono tavoli, sedie, acqua potabile anche per chi avesse dei cani, posate e un quaderno dove lasciare testimonianza del proprio passaggio. Poi la Via prosegue in discesa e troviamo il fango, che ci si attacca alle scarpe, a dimostrare che ne abbiamo fatta di strada. Nell’ultimo tratto, quello che ci dovrebbe portare fino a Siena, il bosco del Renai è chiuso, e ci ritroviamo a camminare lungo l’asfalto fino alla tangenziale. Siena è vicina ma il percorso è pessimo. Fermi in un bar decidiamo di prendere un taxi per gli ultimi tre chilometri fino a Porta Camollìa (con l’accento sulla i) e finalmente facciamo il nostro ingresso in città.

Di nuovo a Siena, siamo stanchi ma decidiamo di rivederla, con occhi nuovi. Una piccola chiesa si affaccia su Via di Camollìa, poi una libreria che mostra in vetrina un raro volume di Franco Angeli Editore. Dopo tanta natura ci perdiamo nel nostro mondo, fatto di libri. Torniamo al Duomo e, infine, da Via di Città imbocchiamo una delle tante stradine che portano a Piazza del Campo, piena come sempre di turisti ma anche di giovani comodamente sdraiati sul selciato. Tra qualche giorno ci sarà il Palio, forse l’unica festa medievale sopravvissuta in Italia e non resuscitata a fini turistici. Un ultimo sguardo a trecentosessanta gradi ed è tempo di tornare.

Non siamo dei pellegrini e questa non è solo una tappa, è il nostro traguardo. Siamo due cittadini che dormono poco perché di notte fanno danni e quando si svegliano la mattina per andare a lavoro non c’è neanche il tempo per pentirsi, spesso neanche il tempo per un caffè. Per questo ci piace perderci nella natura quando capita, non cerchiamo dio, ma il piacere di tornare a casa, e anche questa è fatta.

Durante il ritorno in macchina siamo di nuovo, definitivamente noi due. Il nostro sguardo è riuscito a contenere tutto, la nostra memoria lavora oggi per farci riscoprire più in là, ancora una volta, le novità e gli aspetti imprevisti di chi ogni giorno abbiamo davanti agli occhi, accanto nel letto, e che sarà disposto a seguirti per mille e una Francigena ancora.

tappa n.11: da Monteriggioni a Siena

La tappa, relativamente breve e facile, è resa complicata dalla totale mancanza d’acqua e di punti di ristoro.

mappa tappa n11 da Monteriggioni a Siena

mappa della tappa n.11 della Via Francigena Toscana: da Monteriggioni a Siena

Lunghezza Totale: 20.5 chilometri
Percorribilità: a piedi oppure in mountain bike
Tempo di percorrenza a piedi: 4.30 (ore min)
Dislivello in salita: 330 metri
Dislivello in discesa: 282 metri
Quota massima: 354 metri
Difficoltà: media
Strade pavimentate: 42%
Strade sterrate e carrarecce: 33%
Mulattiere e sentieri: 25%
Ciclabilità: 95%
Come arrivare al punto di partenza:Linea FS Empoli-Siena, stazione Castellina Scalo

turismo.intoscana.it

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A cavallo nel Padule

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25 aprile 2015 | Mosummanno Terme, all'Agriturismo Il Bottaccino

Tra Altopascio e San Miniato nella zona depressa del Fucecchio

testo di Federica Araco | foto di Francesco Van Straten, francescovanstraten.com

Non perdere il treno per me è sempre una scommessa ma stavolta sono riuscita ad arrivare sui binari con ben quattro minuti di anticipo. Trascino soddisfatta il pesante trolley nella carrozza e, una volta seduta, socchiudo gli occhi lasciando sprofondare il mio corpo nel morbido sedile, aspettando la partenza. Sono emozionata come una bambina. Amo la natura, adoro cavalcare e già pregusto l’intensità e la bellezza di questo fine settimana di trekking lungo la Francigena.

Partiremo domani all’alba da Mosummanno, un piccolo centro a pochi chilometri da Montecatini Terme, per costeggiare l’antica Via di pellegrinaggio che attraversa la Toscana in senso longitudinale, collegando Roma alla Francia.

Mentre il treno sferraglia ne approfitto per sonnecchiare un po’, riscaldata dal pigro sole primaverile che filtra dal finestrino. Il viaggio trascorre veloce e al mio arrivo a destinazione sono fresca e riposata, pronta a lanciarmi in questa nuova avventura.

25 aprile 2015 |Mosummanno Terme, Agriturismo Il Bottaccino | la preparazione dei cavalli prima della partenza 25 aprile | Cavalli in sosta vicino a un canale del Padule del Fucecchio 25 aprile 2015 | Cespi di sarello nel Parco Nazionale del Padule del Fucecchio, nella Val di Nievole 25 aprile 2015| Nel cuore del Padule, luogo di passaggio e nidificazione di molte specie di uccelli migratori 25 aprile 2015 | Cavalli in sosta al Lago dei Salici 25 aprile 2015| Nel bosco vecchio di Chiusi, attraversando il Padule del Fucecchio

Riccardo e Marlene, le mie guide, mi accolgono nel loro paradiso: uno splendido casolare immerso nel verde dove allevano cavalli in modo naturale. Niente ferri agli zoccoli, né box o coperte, solo vita all’aria aperta e alimentazione a base di fieno. Salita in sella, mentre trotterello spensierata per familiarizzare con il mansueto quadrupede che mi è stato affidato, sperimento un modo completamente nuovo di cavalcare.

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25 aprile 2015 | In meditazione sulle rive del Lago dei Salici

La respirazione, spiega Riccardo, è fondamentale: si inspira espandendo l’addome e il torace per accelerare il passo e si espira, incurvando leggermente il busto, per rallentarlo, o fermarsi del tutto.

«Il cavallo è una preda estremamente sensibile, capace di cogliere sottili sfumature energetiche», dice. «Più il cavaliere è connesso e rilassato più riuscirà a inviargli segnali chiari con il linguaggio del suo corpo e la relazione tra i due sarà fluida e armoniosa». Sono piacevolmente colpita dalle assonanze tra il loro approccio e la mia pratica di yoga, meditazione e bioenergetica, ormai decennale.

E pensare che sono capitata qui “per caso”… Mi concentro sul respiro provando a entrare in sintonia con il ritmo di un movimento che da lentissimo si fa più veloce, per poi rallentare di nuovo.

«Sono pronta, sono quasi pronta», mi ripeto nel letto, mentre le immagini, i suoni e gli odori di quella natura incontaminata sfumano dolcemente lasciando spazio alla frenetica attività onirica del mio inconscio metropolitano.

Mi sveglio cullata dal cinguettio festoso dei passerotti appollaiati tra i rami del glicine bianco, appena fuori la mia finestra.

Preparati i cavalli, procediamo in fila indiana su uno stretto sentiero che si snoda tra i campi per inoltrarci nel Parco Naturale del Padule del Fucecchio, l’area umida interna più estesa di Italia e tra le più importanti d’Europa. Un luogo magico e segreto, tra la provincia di Pistoia e quella di Firenze, nel cuore della Val di Nievole. Un sistema di canali comunicanti si dirama tra fitti argini erbosi punteggiati da piccolissimi fiori di campo e cespi di sarello, il materiale usato per impagliare le tipiche sedie toscane, i fiaschi di vino e le borse.

26 aprile 2015| Sosta pic-nic alla Casina delle Fate 26 aprile 2015| Costeggiando il canale, lungo la via del ritorno

Le palafitte in legno, qualche guardiola di avvistamento e piccoli porticcioli con le tipiche imbarcazioni, longilinee ed eleganti, testimoniano l’intensa attività venatoria che si svolge in queste zone. «C’è un’incredibile biodiversità», racconta Marlene, che qui è nata e cresciuta. Sulla rotta di alcuni uccelli migratori, il Padule è anche un luogo di nidificazione per molte specie, come la garzaia, la garzetta, l’airone bianco, il cenerino e la cicogna.

La vegetazione è molto rigogliosa in primavera mentre d’inverno gran parte del territorio è sommersa dalle acque. «L’atmosfera diventa surreale, avvolta da una nebbia fittissima», ricorda Riccardo. «In passato, questo era un nascondiglio perfetto per i briganti dediti a commerci illeciti e per i malviventi in fuga che volevano sottrarsi ai controlli lungo la Francigena».

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26 aprile 2015 | Sulla strada verso casa

Ci inoltriamo nel bosco nuovo di Chiusi e dopo circa tre ore raggiungiamo il lago dei Salici dove passeremo la notte. C’è un piccolo circolo sportivo che propone diverse attività ricreative ed eventi culturali. Il proprietario, Piero, è un ragazzone sulla quarantina dal sorriso docile e gli occhi allegri. Quando anche gli ultimi visitatori vanno via montiamo le tende e sistemiamo i cavalli in un piccolo giardino recintato. Il vociare dei bambini lascia gradualmente il posto a un silenzio denso e rilassante, interrotto solo dal canto di qualche civetta e altri uccelli notturni. Ne approfitto per avvicinarmi al lago, ipnotizzata dal suono dell’acqua che sbatte sulla banchina in legno, mentre il sole cala dolcemente dietro le colline incorniciate da una fila ordinata di cipressi.

Ci rimettiamo in viaggio poco dopo mezzogiorno, dirigendoci verso il bosco vecchio di Chiusi. «La leggenda narra che qui vivesse uno stregone, Ramone, che curava con le erbe», racconta Riccardo indicandomi un casolare abbandonato vicino a un laghetto di ninfee. La grande piccionaia che domina il tetto appuntito conferisce alla costruzione, nota come Casina delle Fate, un aspetto vagamente sinistro. «Si dice che il fattucchiere, di notte, si trasformasse in uccello per muoversi più rapidamente e dedicarsi alla magia nera senza essere riconosciuto» prosegue legando i nostri cavalli alle ringhiere arrugginite. «Quando pernottiamo qui con le tende accadono cose strane», continua Marlene. «Ci svegliamo la mattina e gli alberi attorno a noi sembrano aver cambiato posizione, l’erba del prato ci appare cresciuta, l’atmosfera diversa, come animata».

26 aprile 2015 | Fiorellini di campo e alberi ad alto fusto nel Parco Naturale del Padule del Fucecchio 26 aprile 2015 | Airone in volo sul Padule

Non sono particolarmente coraggiosa, ammetto, e questi racconti non mi faranno dormire stanotte. Lascio cadere la conversazione, sperando che nessuno riprenda il discorso con altri agghiaccianti particolari, e provo a rilassarmi sotto un pruno selvatico sbirciando con la coda dell’occhio per accertarmi che rimanga esattamente lì dove si trova.

Riprendiamo il viaggio tra stradine bianche e cespugli di more, ginestre e biancospino. Il terreno in alcuni punti è smosso, rivelando la presenza di una nutrita comunità di cinghiali, lepri, volpi e caprioli. Proseguiamo in silenzio, avvolti dai suoni della natura: gli zoccoli sul selciato, il vento tra i rami, il rilassante cigolio delle nostre selle.

Socchiudo gli occhi inspirando ed espirando per assorbire la quieta bellezza che mi circonda. Ne avrò un gran bisogno per riaffrontare la frenesia della vita romana: domani è già lunedì.

26 aprile 2015 | Di ritorno da un lungo viaggio... 26 aprile 2015 | Riccardo, la nostra guida, insegnante di equitazione ed esperto di doma e monta secondo il metodo naturale

www.agriturismoilbottaccino.it

TAPPA N.7 DA ALTOPASCIO A SAN MINIATO

Acqua e punti di ristoro a Chimenti, Galleno, Ponte a Cappiano e Fucecchio.

la tappa numero 7  da Altopascio a San Miniato

la tappa numero 7 da Altopascio a San Miniato

Lunghezza Totale (km): 25.3
Percorribilità: A piedi, in mountain bike
Tempo di percorrenza a piedi (ore.min): 5.40
Dislivello in salita (m): 283
Dislivello in discesa (m): 173
Quota massima (m): 130
Difficoltà: Facile
Strade pavimentate: 44%
Strade sterrate e carrarecce: 53%
Mulattiere e sentieri: 3%
Ciclabilità: 100%

About the photographer:

Francesco Van Straten

francesco-van-stratenokNato e cresciuto a Firenze, a 20 anni, confuso su cosa fare da grande, tediato dagli studi universitari e animato da un sano desiderio di indipendenza, si trasferisce a Milano per seguire una nuova passione: la fotografia. Dopo la formazione, sempre voglioso di crescere e allontanarsi dal conosciuto, va a vivere a New York per 3 anni dove lavora come assistente e inizia a collaborare con alcune riviste.

Dopo il famoso 11 Settembre 2001 decide di “mettere la testa a partito” e torna nella ridente Milano dove dal 2002 lavora per l’editoria (Vogue, L’Officiel, Elle, Amica) e per la pubblicità per clienti come Valentino, Diesel, Sky, Vodafone, BMW, TIM, Cocacola, Safilo e partecipa alla messa al mondo di due figli.

Recentemente ha pubblicato una sua fanzine che è stata esposta al Palais de Tokyo a Parigi, continua ad amare la fotografia e la vita in tutte le sue sfumature.

francescovanstraten.com

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Paradiso segreto

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Il Giardino di Daniel Spoerri

testo di Damiano Mencarelli | foto di Luciana Massaro

Da piccolo mi dicevano sempre: «Ricorda! Chi va piano va sano e lontano». Sinceramente, non ho mai trovato un valido motivo per non crederci. In un detto popolare si nasconde sempre qualche verità, almeno quella che riusciamo a vedere riflessa su di noi. In questo in particolare, però, mi è sempre sembrato che mancasse qualcosa. Perché mai dovrei andare piano, dopo tutto?

È una vita che vado piano, faccio ogni cosa lentamente. A tavola, mentre io sono ancora al primo, gli altri stanno già finendo il secondo. C’è qualcosa di diabolico o di romantico in tutto questo e ho bisogno di capire che cos’è.

Ho deciso di partire a piedi, così sarò costretto ad andare piano e avrò tutto il tempo per interrogarmi.

Mi dirigo verso Nord con l’idea di arrivare in un posto che mi hanno sempre consigliato. Si trova da qualche parte nella Val d’Orcia: dicono sia un giardino misterioso, pieno di opere d’arte realizzate da un artista insieme ai suoi amici. Mentre cammino lungo questa strada che non conosco la mia mente si perde nella progettazione di quello che potrebbe essere il mio giardino. Sono lì a discutere con i miei compagni su come e dove posizionare quell’enorme scultura a forma di sasso. Io la vorrei più a destra mentre per gli altri è perfetta esattamente lì dove si trova. Chissà come sarebbe stato bello poterlo fare veramente. Continuo a camminare e li visualizzo tutti impegnati in animate conversazioni, un po’ geniali, un po’ ubriachi, comunque intenti ad affrontare problemi.

Usiamo il ferro per la struttura?
No, io direi piuttosto il legno….
Non dimentichiamoci di mettere del Neon!
Ottimizziamo questa luce.

La differenza è simbolica, spesso minima, in base alla materia, al singolo effetto o a seconda della sensazione di chi osserva. Ma sono i dettagli che contraddistinguono un’opera, che la rendono unica.

luciana-massaro-giardino-daniel-spoerri-via-francigena-the-trip-magazine (2)Quando si parla di arte, la collocazione di un pezzo in un posto preciso non è facile da ideare perché in genere, quando siamo immersi nel nostro processo creativo, non pensiamo mai al luogo dove poi la nostra opera verrà esposta. Siamo in continuo movimento, da un luogo a un altro, e non troviamo mai il tempo di fermarci.

Mi domando quanto avranno impiegato per realizzare quel giardino, chissà se sono andati lentamente oppure se tutto è stato progettato e realizzato in un lampo.

Sono quasi giunto a destinazione quando mi fermo ad ammirare una quercia. La chiamano la quercia delle cecche, che qui in Toscana sono le gazze. Ha quattrocento anni. È davvero bellissima, enorme, tutta allungata. Dev’essere cresciuta anche lei pianissimo.

Proseguo, ormai il giardino è vicino. Lascio le indicazioni della Via Francigena per seguire quelle di Seggiano, mi guardo intorno e mi sento dentro il paesaggio che scorre davanti a me. Respiro odori diversi, sento suoni diversi: sto andando piano e riesco a gustarmi tutto.

Poi leggo un cartello con su scritto Giardino di Daniel Spoerri, finalmente questa strada ha portato a un nome, ed entro. Mi guardo intorno e rimango estasiato: con un colpo d’occhio vedo le montagne, un tappeto infinito di ulivi e, in lontananza, il mare che brilla. «Si sono fatti fregare – penso – il panorama deve averli stregati e non hanno combinato più nulla» concludo, mentre il cancello dell’artista svizzero si chiude alle mie spalle. Ma non è così: sulla mappa inizio a individuare le centrotré creazioni dei cinquanta artisti che dagli anni Novanta hanno lavorato alla realizzazione delle opere sparse nel giardino e mi sento attratto da tutto, proprio come un bambino.

Vedo delle oche di pietra che corrono verso di me, poi mi giro e resto incantato da un grande disegno di Nazca riprodotto sul terreno. Poco lontano, sculture di bronzo brillano illuminate dai raggi del sole, mi riposo su un divano imbottito di ferro e ricoperto d’erba mentre alcuni tubi suonano attraversati dal vento. Il giardino è grande e ti fa sentire un esploratore: ogni cosa va scoperta, toccata, ammirata, il panorama ti distrae ma poi scopri un’altra creazione ancora e tutto ricomincia.

Tutto sembra sia stato generato naturalmente, senza l’intervento dell’uomo, e mi chiedo se sia un’opera anche lo stagno d’acqua che incontro. Spoerri e i suoi amici hanno fatto breccia dentro di me, insegnandomi come ogni luogo meriti di essere non solo curato e preservato ma anche usato, con rispetto e creatività.

Andare piano è l’approccio indispensabile per poter avere attenzione, passione, sensibilità, estro e la possibilità di realizzare veramente qualcosa senza doverla semplicemente rincorrere.

Oggi me ne sono reso conto.

TAPPA N.14 DA SAN QUIRICO D’ORCIA A RADICOFANI

Acqua e punti di ristoro sono a Bagno Vignoni e Gallina (bar a 500 m dal tracciato, sulla Cassia).
tappa-n14-da-san-quirico-d-orcia-a-radicofani

la tappa numero 14 da San Quirico d’Orcia a Radicofani | deviando per Seggiano si arriva ai GIardini di Daniel Spoerri

Lunghezza Totale (km): 32.7
Percorribilità: A piedi, in mountain bike
Tempo di percorrenza a piedi (ore.min): 7.15
Dislivello in salita (m): 908
Dislivello in discesa (m): 532
Quota massima (m): 790
Difficoltà: Impegnativa
Strade pavimentate: 44%
Strade sterrate e carrarecce: 56%
Mulattiere e sentieri: 0%
Ciclabilità: 99%

 

 

 

Per raggiungere il Giardino dalla Via Francigena si parte da Bagno Vignoni si prende la strada (SR323) per Castiglione d’Orcia. Dopo 14 km si arriva a Seggiano. Qui si continua sulla stessa strada, in direzione di Castel del Piano. Dopo 500 metri si gira a sinistra per Pescina, campo sportivo, Il Giardino di Daniel Spoerri. L’entrata al Giardino si trova dopo circa 600 metri sulla sinistra, di fronte al campo sportivo.

danielspoerri.org

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Sulcis in fundo

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Cala Domestica

testo di Federica Araco | foto di Fabio Dongu

Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai, truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare, porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi e mari di grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le promesse spose strusciano impudicamente il ventre nel segreto della notte, vegliate da madri e nonne.

C’è una Sardegna come questa, o davanti ai camini si racconta che ci sia […] perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi.

Cala Domestica

Cala Domestica

Le parole di Michela Murgia in Viaggio in Sardegna accompagnano il mio ritorno sull’isola. L’ennesimo da quando, sbarcata per la prima volta poco più che dodicenne, rimasi inebriata dal suo intenso profumo di lentisco e salsedine e dalla luce accecante del tramonto che mi accolse tra gli stazzi della Gallura.

Meta di questo mio girovagare sarà, stavolta, il suo estremo confine sud-occidentale: quel territorio selvaggio al di fuori delle tradizionali rotte del turismo di massa coincidente con la regione storica del Sulcis-Iglesiente.

Questa terra, di straordinaria bellezza e forti contraddizioni, al contempo aspra e rigogliosissima, mi sembra, sin dal primo impatto, come avvolta da un silenzio irreale. Lungo le sue coste frastagliate, tra imponenti pareti di roccia a picco sul mare e montagnole grigiastre e molli ricoperte da un’ostinata vegetazione, si estende il parco geominerario più grande d’Italia.

Sfruttato sin dall’antichità dai Fenici e dai Romani e, in tempi più recenti, da piemontesi, francesi, belgi e tedeschi, era un tempo ricchissimo di rame, argento e ossidiana.

«Negli anni Trenta del secolo scorso da qui proveniva il 10 percento della produzione mondiale di piombo e zinco, oltre al famoso carbonsulcis, usato nel fascismo per lo sviluppo industriale autarchico voluto da Mussolini», spiega Fabio Dongu, fotografo e documentarista, presidente dell’Associazione di promozione sociale Sonebentu (in sardo “Il suono del vento”), che a Carbonia organizza trekking a piedi ed escursioni nelle miniere abbandonate e nelle aree archeologiche e naturalistiche di cui questa zona è ricchissima.

La nostra automobile si inerpica solitaria per gli stretti sentieri scavati tra i monti, costeggiando diversi impianti di estrazione ormai completamente abbandonati e circondati da paesini fantasma dove i minatori vivevano insieme alle loro famiglie. In molti luoghi gli strumenti di lavoro sono ancora visibili e i macchinari usati per il trasporto dei minerali, oggi completamente arrugginiti, sembrano mostruose e gigantesche sfingi della modernità, rimaste lì a vegliare su un regno addormentato da un improvviso incantesimo.

Portixeddu

Portixeddu

Risalendo da Carbonia verso nord incontriamo Buggerru, una cittadina che, spiega Fabio, è stata costruita dai francesi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. I segni della speculazione edilizia incontrollata degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta sono evidentissimi e bisogna allenare lo sguardo per scovare, tra un palazzone e l’altro, qualche bella facciata in stile liberty, discreta testimonianza dei fasti del passato. Qui, fino a qualche decennio fa, si incontravano dame francesi elegantissime e gentiluomini dallo stile inconfondibilmente d’Oltralpe arrivati per investire nel settore minerario, ancora molto fiorente all’epoca. Questi avventurieri e piccoli imprenditori, che per la gente del posto altro non erano che sfruttatori senza scrupoli, finita la fase estrattiva non hanno esitato ad abbandonare il territorio, lasciando centinaia di famiglie senza alcuna prospettiva economica.

«Non è un caso», continua Fabio, «che proprio qui a Buggerru nel 1904 si verificò la prima rivolta sindacale d’Italia. Decine di minatori scesero in strada per protestare contro le condizioni di lavoro inumane imposte dalla società Malfidano. Arrivò l’esercito e i militari spararono sulla folla uccidendo tre manifestanti».

Poco più a Nord si intravede, nelle limpide giornate di maestrale, l’esteso sperone di roccia di Capo Pecora, quasi al confine con il Medio Campidano.

Arriviamo al tramonto per assistere a una serata DUNAJAM, un raduno di giovani di tutto il mondo (pochissimi gli italiani) che ogni anno a fine giugno si ritrovano in Sardegna attirati da una ricercata programmazione e dai contesti naturalisticamente suggestivi e molto selvaggi scelti come location.

concerto Dunajam

concerto Dunajam

Un ragazzo giapponese sta suonando un sitar seduto su uno scoglio al centro di questo strettissimo lembo di terra rocciosa che si protende per decine di metri in un’acqua cristallina. L’atmosfera è magica: tutti intorno ci sono decine di giovani, alcuni con figli, seduti a terra con l’immancabile Ichnusa in mano o un bicchiere di buon vino locale, ad ascoltare in rispettoso silenzio. Poco prima che il sole scompaia dietro l’orizzonte ci spostiamo su una piccola montagna di granito rosa che digrada nel mare per ammirarne gli ultimi raggi dorati.

Chiudo gli occhi e ascolto in lontananza quei suoni, delicati e ipnotici, respirando piano. Comincio finalmente a rilassarmi, godendo questa inaspettata accoglienza da parte di una terra straordinaria che non smetterà mai di sorprendermi.

Un tuffo in Piscinas

Continuiamo il nostro viaggio tra le miniere dismesse che, come cicatrici non rimarginate, tracciano la geografia di un mondo fantasma.

Fabio ha organizzato per noi l’escursione I colori della terra. Dagli spazi infiniti alle mani dell’uomo, un itinerario a piedi di sette chilometri che si snoda tra villaggi abbandonati e dune modellate dai venti che soffiano dal mare. Partiamo dall’area dismessa della Laveria Brassey, oggi ridotta a uno scheletro di pietra e ferro di enormi proporzioni incorniciato dalle montagne di detriti nate dall’accumulo dei materiali sterili delle lavorazioni minerarie.

Proseguiamo lungo la carrareccia accanto al Rio Naracauli, tra enormi cespugli di rosmarino e qualche pianta di limone selvatico, e in alcuni tratti costeggiamo ciò che resta della vecchia decauville, la ferrovia che un tempo trasportava i carrelli pieni di minerale fino al deposito sulla spiaggia, oggi trasformato in albergo di lusso, e da lì al vicino porticciolo per le spedizioni in tutta Italia.

miniera abbandonata Piscinas

Man mano che ci avviciniamo alla costa il paesaggio cambia: il terriccio sotto i nostri piedi da scuro comincia gradualmente a schiarirsi fino a trasformarsi in una larga distesa di sabbia finissima. Siamo nel cuore del Sahara della Sardegna, undici chilometri di dune dorate, tra le più alte e belle d’Europa, modellate dal vento incessante. Malgrado i residui tossici della lavorazione dei metalli e l’elevata salinità del terreno, la macchia mediterranea è rigogliosissima. «In alcuni punti le dune raggiungono anche i cento metri di altezza», spiega Fabio. «Siamo di fronte a un fenomeno unico in Italia che, con il suo particolarissimo microclima, offre un habitat ideale anche per alcune rare specie arboree e per animali autoctoni, come il cervo sardo, che era a rischio di estinzione».

Dopo una sosta-picnic all’ombra di un enorme ginepro finalmente arriviamo in spiaggia: una distesa di tre chilometri di sabbia morbidissima punteggiata da qualche sparuto ombrellone colorato. «L’ultimo tratto di strada non è asfaltato», racconta la nostra guida, «così molti turisti o bagnanti dell’ultima ora decidono di andare altrove, lasciando questo paradiso pressoché incontaminato». Il contrasto tra l’acqua cristallina, di un verde-azzurro intenso, e il colore del grano maturo delle dune alle nostre spalle crea giochi di luce straordinari. Qui il tocco sapiente della natura sembra avere avuto la meglio sul goffo e sempre inopportuno intervento umano.

Escursione “I colori della terra” da Naracauli a Piscinas:
Durata: 7 ore
Lunghezza 8 Km
Rifornimento idrico: nessun punto d’acqua
Tipologia: escursione naturalistica
Difficoltà: medio
Attrezzature: scarpa chiusa adatta ai terreni sconnessi, abbigliamento adatto per l’escursionismo

Sonebentu nel ventre della terra 

Abbiamo la fortuna di trascorrere in compagnia di Fabio un’ultima giornata e decidiamo di dedicarla alla visita di Sa Fraigada, un monumento noto come La tomba dei giganti (in sardo tumba de is gigantis) di Barrancu Mannu, nell’entroterra.

«Il monumento, risalente all’età del Bronzo Medio (1300 a.C. circa) è una tipica costruzione dell’architettura funeraria nuragica», ci racconta, inoltrandosi per uno stretto sentiero incastonato tra arbusti, dirupi e picchi granitici che si stagliano verso il cielo, oggi limpidissimo. Le pietre delle possenti mura ciclopiche che costeggiamo salendo lungo il pendio, modellate da secoli di vento e pioggia, hanno assunto forme bizzarre e ci divertiamo a scorgerne profili di animali, improbabili astronavi primordiali, volti umani, ritrovandoci ammaliati, e forse un po’ suggestionati, da un’energia al contempo accogliente e inquietante.

«Si tratta di una tomba collettiva costruita con grossi blocchi di granito il cui ingresso, alto una sessantina di centimetri e largo cinquanta, è sormontato da un architrave di pietra», spiega Fabio accompagnandoci nel cuore del vestibolo semicircolare scavato nella roccia dove anticamente il sacerdote della comunità celebrava il rito prima dell’incubazione del defunto.

Fabio-Dongu-Sulcis-Sardegna_the-trip-magazine (9)Entriamo in una sorta di galleria scavata nella montagna che suggerisce l’antico passaggio di un corso d’acqua che poi deve aver deviato il suo tragitto. L’atmosfera ha qualcosa di magico e il tempo sembra essersi fermato. Ci sdraiamo sul duro selciato e qui trascorriamo lunghe ore in silenzio, accarezzati dal vento che soffia incessante dalla costa verso la montagna, in compagnia del cinguettio festoso di tre piccoli di rondine che nel loro nido attendono che la mamma porti loro il cibo. Le parole si diradano, i nostri respiri rallentano sintonizzandosi gradualmente tra loro. E mi piace immaginare che anche i battiti dei nostri cuori risuonino all’unisono, guidati dal ritmo antico e cadenzato della terra.

A cavallo tra i nuraghe

A pochi chilometri dalla cittadina mineraria di Carbonia, sulla costa sud, si stagliano all’orizzonte le due isole maggiori dell’arcipelago sulcitano: Sant’Antioco e San Pietro.

Decidiamo di trascorrere qualche giorno nella prima, più grande e collegata all’isola madre da un istmo artificiale lungo tre chilometri. Con le sue rocce vulcaniche ( Perdas de focu, “Pietre di fuoco”, raggiunge i 271 metri di altezza) e le brulle colline che digradano verso un mare color verde-ottanio, Sant’Antioco era conosciuta sin dall’antichità per l’importante insediamento fenicio di Sulci.

Decine di tombe puniche scavate nel calcare, is gruttas, “le grotte”, si diramano in un dedalo di cunicoli, nicchie e piccoli nascondigli sotto il centro abitato omonimo e fino a qualche decennio fa, ci spiegano, erano usate come case. Risalendo verso la parte più alta della cittadina si raggiunge un rilievo ventoso da cui emerge il trophet, il “luogo dell’arsione” dove si dice che i sacerdoti fenici e cartaginesi offrissero agli dei Tanit e Baal sacrifici umani.

Ma la nostra passione per la Sardegna nuragica ci spinge verso altri itinerari, più interni e sicuramente meno battuti. Decidiamo di esplorare a cavallo la punta sud-orientale dell’isola, attraversando un territorio brullo e pressoché disabitato compreso tra Coecuaddus, Portu Sciusciau e Fontana Cannai. La nostra guida, Alessandro, è un giovane del posto con gli occhi vispi e il sorriso cordiale. Ci accompagna dal suo maneggio, il Centro Ippico Coecuaddus (che in sardo significa “coda di cavallo”) lungo stradine bianche che si snodano tra campi di avena e macchia mediterranea, muretti in pietra e vecchi stazzi abbandonati. Manteniamo un’andatura morbida per godere in tutta tranquillità dei suoni e dei colori della natura che ci circonda e dopo circa mezz’ora di cammino raggiungiamo la Tomba dei Giganti, un insediamento nuragico simile a quello di Barrancu Mannu, ma meno imponente e purtroppo non altrettanto ben conservato. Rimango incantata dalla luce dorata che precede l’ora del tramonto, mentre una delicata brezza marina mi avvolge inebriandomi con gli odori di lentisco, elicriso e rosmarino selvatico.

Sul colle, in lontananza, domina Capo Sperone e si intravedono i ruderi dell’ottocentesco Semaforo, postazione telegrafica della Regia Marina per il controllo del Golfo di Palmas. Procedendo verso sud, costeggiamo alcuni resti di antichi nuraghe, tristemente abbandonati all’incuria dall’amministrazione locale, più interessata a valorizzare le tracce delle civiltà successive, qualche domus de janas e numerose fonti d’acqua.

Torniamo al maneggio dopo due ore di cammino e ad accoglierci c’è dell’ottimo formaggio pecorino autoprodotto, pane caldo fatto in casa appena sfornato e della birra ghiacciata artigianale.

Quale modo migliore per tornare con i piedi per terra?

Fabio-Dongu-Sulcis-Sardegna_the-trip-magazine (8)

Per le vostre escursioni nel Sulcis contattate l’Associazione Sonebentu
Per le vostre gite a cavallo a Sant’Antioco e dintorni

 

 

 

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I miei colleghi e altri animali

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Ilaria-Di-Biagio-francigena-the-trip-magazine

da Gambassi Terme a San Miniato

testo di Claudia Bena | immagini di Ilaria Di Biagio 

«Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni passeggiata, sia pur breve. La conoscenza della natura e del paese si schiude piena di deliziose lusinghe ai sensi e agli sguardi dell’attento passeggiatore, che beninteso deve andare in giro ad occhi non già abbassati, ma al contrario ben aperti e limpidi, se desidera che sorga in lui il bel sentimento, l’idea alta e nobile del passeggiare» *

Questa è la storia di una libraia (che sarei io), del suo collega biologo naturalista e del suo ex collega scrittore che decidono di andare da Gambassi Terme fino a San Miniato percorrendo la Via Francigena. Le passeggiate che sto facendo per questo tratto di strada riscuotono molto interesse, ed eccomi quindi in partenza ancora una volta con un nuovo gruppo e sette ore di cammino davanti. Siamo partiti da dieci minuti e i miei compagni di viaggio già mi hanno abbandonato per inseguire un fagiano. Ecco la prima delle tante cose che ho imparato in questa giornata: ci sono aziende faunistico venatorie che allevano i fagiani per poi farli cacciare nelle stesse tenute dove hanno imparato a vivere senza timore dell’uomo. Voglio solo sperare che non abbiano avuto paura, un secondo prima dello sparo, ma che gioia vederne alcuni scorazzare ancora liberi nelle vicine aree protette. Vi siete salvati, non siete poi tutti fagiani!

Ho imparato che tra le zolle smosse dagli aratri si trovano una quantità di conchiglie, coralli e tanto altro che in passato apparteneva al mare. Ho imparato perché si alternano coltivazioni di leguminose tra le lunghe file dei vitigni e perché all’inizio di ogni fila si pianta una rosa.
Ho imparato che gli uomini all’incirca ogni dieci minuti devono discutere di calcio ma non si vergognano a parlare di matrimonio né di chinarsi per annusare un fiore, o emozionarsi scoprendo tra l’erba un’orchidea selvaggia.
Ho ritrovato il piacere di chiedere cos’è a ogni singolo verso ascoltato in natura e ho scoperto che quello che mi serve è sempre una sfida: non avrei mai camminato sette ore se non fossi stata obbligata, eppure l’ho fatto. 

Federico, l’ex collega scrittore, dice che “sta cosa”, come non ha mai smesso di chiamarla dalle prime e-mail che ci siamo scambiati fino alla fine del percorso, è molto bella ma che probabilmente la rifarà tra dieci anni.
Michele, con le gambe doloranti forse per il continuo chinarsi invano sopra ogni singola pozza d’acqua alla ricerca dei tritoni, piccoli anfibi a quanto pare difficili da scovare, si muove come se fosse nel suo habitat naturale ed è una meraviglia osservare con quale entusiasmo studia la natura, come se ogni volta scoprisse qualcosa di nuovo. Il suo è un approccio sicuramente molto contagioso e io sto già ipotizzando altri percorsi da affrontare in futuro. 

Se vi aspettavate di vedere foto della flora e della fauna locali avete capito male. Ho pensato che tanto, potendo farvi solo immaginare i profumi e i rumori, allora riuscirò anche a raccontare i colori che ho incontrato passeggiando verso San Miniato. 

Immaginate colline di un verde intenso, l’erba alta mossa dal vento e i campi puntinati di giallo. Immaginate il blu e il viola della borragine pelosa, il marrone chiaro della terra ancora da arare alternato alle zolle scure della terra nuova, con il suo acre profumo.
Il grigio della creta solidificato dal sole cosparso di conchiglie dello stesso colore, un leggero strato di polvere bianca che ricopre il tutto e che ti resta appiccicata alle dita quando la curiosità ti spinge a staccare dal suolo alcuni di quei frammenti. I fiori delle fave come tanti piccoli occhietti che ti guardano curiosi. Il polline giallo portato dal vento insieme ai versi dei fagiani, delle pernici, delle tante gazze, al rumore di un trattore in lontananza. Le voci di tre amici che non smettono mai di parlare e il suono cadenzato di sei piedi che si spostano nella stessa direzione. I saluti fatti ai tanti pellegrini incontrati durante il percorso. 

E poi la foresta, il sottobosco con i suoi ciclamini, e finalmente l’asfalto quando, dopo tanta fatica, arriviamo a San Miniato.

* L’introduzione è tratta da La passeggiata di Robert Walser, Adelphi 

 TAPPA N.8 DA GAMBASSI TERME A SAN MINIATO

Gli unici punti di ristoro e di rifornimento idrico sono a Calenzano e una trattoria a 500 m dalla Pieve di Coiano, verso Castelnuovo d’Elsa (fuori dal nostro percorso).

tappa numero otto da Gambassi Terme a San Miniato

tappa numero otto da Gambassi Terme a San Miniato

Lunghezza Totale (km): 23.7
Percorribilità: A piedi, in mountain bike
Tempo di percorrenza a piedi (ore.min): 6.00
Dislivello in salita (m): 406
Dislivello in discesa (m): 231
Quota massima (m): 305
Difficoltà: Impegnativa
Strade pavimentate: 37%
Strade sterrate e carrarecce: 62%
Mulattiere e sentieri: 1%
Ciclabilità: 99%

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ViaggioLento nel Pollino

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scorciatoia per la Casa del Carro

testo di Federica Araco | foto di Rosella Marasco

Arrivo correndo alla stazione di Roma Tiburtina.
Ho sette minuti per fare il biglietto, cercare il mio pullman nell’enorme piazzale, lanciare la valigia nel vano bagagli e aggiudicarmi a grandi falcate un posto in fondo al veicolo, che mi auguro non sia strapieno.
Come sempre in ritardo, sono ultima di una fila che mi sembra interminabile. Un signore al botteghino sta chiedendo informazioni dettagliate sulla tratta Roma-Trieste, acquistando il suo titolo di viaggio con ben due settimane di anticipo. Roba da matti, penso.

Fremo, controllando compulsivamente l’orario e augurandomi che il mio orologio si sia per qualche oscura ragione a mia insaputa sintonizzato sul fuso orario di Hanoi.
Invece mancano solamente quattro minuti alla partenza e io, con molte probabilità, perderò il pullman. E non ce ne saranno altri almeno fino a domani.

Il caldo è asfissiante e sono già zuppa di sudore. Riesco miracolosamente a convincere un’adorabile vecchina a farmi passare avanti e mi scapicollo allo stallo 17. Sistemo il trolley, vidimo il biglietto e prendo posto proprio un attimo prima che il motore si accenda.
Anche stavolta ce l’ho fatta, dico tra me e me, promettendomi, come sempre, di organizzarmi con più anticipo per la prossima partenza. Non voglio fare più le cose di fretta, correre come una matta perennemente in ritardo. Vorrei provare ad allentare i ritmi convulsi di questa vita che mi sembra sia in costante accelerazione.

Non è un caso se ho deciso di partecipare al ViaggioLento in compagnia del cantastorie e cantautore calabrese Biagio Accardi e della sua asinella Cometa Libera per i boschi e i borghi del Parco Nazionale del Pollino, al confine tra Calabria e Basilicata. Seguo il progetto da un paio d’anni ma finora non ero riuscita a trovare il tempo per… rallentare, appunto.

L’esperienza è già cominciata da qualche giorno e raggiungo il gruppo alla Casa del Carro, un posto in campagna vicino Lauria circondato da campi di grano, boschi e stradine bianche. In programma ci sono altri due giorni di cammino: attraverseremo un territorio selvaggio e suggestivo, mi dicono, raggiungendo a piedi il piccolo borgo medievale di Ajeta, a una quindicina di chilometri da qui, dove si esibiranno alcuni famosi cantastorie calabresi.

paesaggio al Carro paesaggio del Carro

Dopo una deliziosa cena vegana con prodotti a chilometro zero provenienti dall’enorme orto sinergico che si estende appena fuori la cucina, facciamo quattro chiacchiere sotto al pergolato per conoscerci un po’. Siamo una decina, arrivati da ogni parte d’Italia, attirati da un nuovo modo di viaggiare e desiderosi di “rallentare per poter godere del bello”, come si legge nell’ammiccante volantino.

«L’idea di ViaggioLento è stata ispirata dalla lettura del libro di Mauro Geraci Le ragioni dei cantastorie» dice Biagio offrendoci della tisana fresca di rosmarino e lavanda. «Nel testo l’autore raccontava di Orazio Strano, un cantastorie che negli anni Quaranta girava di piazza in piazza partendo dalla Sicilia, attraversando la Calabria fino ad arrivare in Puglia. Oltre a rappresentare questa visione un po’ romantica del menestrello itinerante, per me questa esperienza vuole essere una modalità per lavorare “a chilometro zero”: faccio molti concerti in giro e sono costretto spesso a muovermi per tutta Italia usando ogni mezzo di trasporto. Volevo provare a esplorare e valorizzare il mio territorio, che ha tante ricchezze ma anche tante difficoltà. All’inizio giravo da solo nelle piazze e nei borghi del Pollino insieme alla mia asinella. Nel primo anno ne abbiamo attraversati quindici, proponendo lo spettacolo Canto e Cunto, un viaggio nella vita dell’uomo attraverso la musica, che da sempre ha svolto un ruolo essenziale per scandirne i diversi momenti di passaggio, dalle ninna nanne per addormentare i bambini ai canti di lavoro, dalle serenate d’amore fino alle lamentazioni funebri».

Negli anni ViaggioLento è diventato un contenitore di idee e di proposte e per questa quinta edizione sono stati introdotti tre giorni stanziali alla Casa del carro in compagnia di esperti di reiki, shiatsu, yoga, bioenergetica e alimentazione naturale. «Tutti strumenti di lavoro corporeo che a mio avviso sono molto importanti per rallentare in modo ancor più consapevole», commenta Biagio.

La Casa del Carro è anche la sede dell’Associazione culturale Cattivo Teatro, promotrice dell’iniziativa, ed è in pochi mesi diventata un centro di incontro e sperimentazione: «Volevamo creare uno spazio per esplorare nuove forme di autosussistenza attraverso il lavoro della terra, con metodi biodinamici e sinergici, e di cucina biologica e vegana con ingredienti rigorosamente autoprodotti», conclude.

Le erbe narrate

La sveglia suona all’alba.
L’aria è fresca e, malgrado l’orario, mi sento piena di energie per affrontare le quattr’ore di passeggiata che mi attendono.

Daniela durante il tragitto ci insegnerà a riconoscere le piante, svelandone proprietà e impieghi, dalla cosmesi alla fitoterapia, passando per infusi, tisane e sfiziose ricette.

Assaggiamo il coloratissimo fiore della cicoria, ottimo nelle insalate, impariamo a riconoscere l’iperico, infallibile contro le scottature, e l’elicriso, da prendere in tisana per problemi respiratori o in forma di oleolito per eczemi e problemi cutanei, e la piantaggine, miracolosa contro le punture di insetti, annotando sui nostri taccuini le proprietà di malva, ortica, achillea, timo e salvia.

 

mani e formaggio del pastore del Carro Levan inforna le pizze
Daniela da circa dieci anni ha lasciato l’efficiente e produttiva Germania per ritirarsi insieme al marito in un piccolo centro del Cilento, a pochi chilometri da qui. «Abbiamo deciso di invertire la rotta, rallentando i nostri ritmi e orientandoci verso un uso più attento e consapevole delle risorse», racconta. «Praticamente non compriamo più nulla. La mattina esco a fare una passeggiata per boschi e sentieri di campagna portando con me un cestino di vimini, un paio di forbici e del filo di cotone. Raccolgo piante e fiori edibili, frutta fresca e poi preparo il pranzo con quello che la natura ci ha offerto».

La loro grande casa, ci spiega, affaccia su una vallata dalla quale è visibile tutto il golfo di Policastro ed è diventata nel tempo un crocevia di appassionati naturalisti, botanici, curiosi, panificatori, amanti del baratto e convinti sostenitori del movimento della decrescita.

La chiave è sempre la lentezza, elemento indispensabile per poter percepire i propri bisogni reali e cominciare con piccoli gesti quotidiani a cambiare direzione.

Un cantastorie 2.0

Biagio cammina davanti a noi affiancato da Cometa Libera, indicandoci il sentiero. Malgrado la sua età (ha poco più di quarant’anni) ha proprio l’aspetto del classico cantastorie: scarpe di cuoio cucite a mano, morbidi pantaloni in tessuto grezzo, gilet in lino e cappellino di paglia per proteggersi dal sole. Se non fosse per il cellulare che spesso usa per postare fotografie o creare eventi sulla pagina Facebook di ViaggioLento, sembrerebbe davvero un uomo del secolo scorso.

«Frequentavo l’Università di Cosenza in un periodo in cui c’era un fermento artistico e culturale abbastanza vivace», racconta. «Lì ho lavorato con la compagnia teatrale Libero Teatro di Maximilian Mazzotta, uno degli interpreti del film Paz, e con loro ho avuto la possibilità di partecipare a vari laboratori. In uno di questi ho conosciuto uno dei miei maestri, Nino Racco, che è stato il primo a mettere insieme le tecniche dei cantastorie con la commedia dell’arte e le sperimentazioni teatrali di Eugenio Barba e di Grotowsky. Fino a quel momento la caratteristica principale dei cantastorie era la staticità, poiché molti erano paralitici, menomati o non vedenti: Nino con il suo lavoro corporeo mi ha affascinato sin dall’inizio».

scorciatoia per la Casa del Carro

scorciatoia per la Casa del Carro

Cresciuto in campagna negli anni di passaggio dal mondo rurale all’industrializzazione, Biagio ha avuto la fortuna di avere una nonna che nelle sere di inverno gli raccontava lunghe e appassionanti fiabe davanti al camino. «Molte sono confluite nel mio repertorio, che nel tempo ho arricchito con un grande lavoro di ricerca e studio dei progetti di altri studiosi, come Otello Profazio ed Ettore Castagna, che per primi cominciarono a raccogliere e valorizzare il patrimonio culturale popolare calabrese e lucano».

Musicista appassionato e ispirato, romantico e visionario, Biagio propone la riscoperta di valori antichi in netto contrasto con le logiche della contemporaneità, a partire dall’accurata scelta del suo compagno di viaggio.

«Il camminare con l’asino facilita nel percorso perché dà l’immagine del pellegrino, che è sempre stato storicamente accolto», spiega Roberta Viggiani, zooantropologa del Movimento Zoè che da anni studia questo animale e propone in Abruzzo trekking, escursioni e laboratori di pet terapy per giovani disabili e portatori di handicap.

verso Ajeta

verso Ajeta

«Oggi i vizi e le virtù che mitologicamente questo animale ha sempre rappresentato, come simbolo del mondo rurale, sono stati gradualmente rivalutati: l’asino porta con sé il valore del cambiamento, della metamorfosi, come raccontava Apuleio ne L’Asino d’oro in cui Lucio può ritrasformarsi in uomo solo dopo aver affrontato e superato numerose prove.
I Romani costruivano le strade sugli itinerari segnati dal passaggio di questi animali, che naturalmente percorrevano i tragitti più sicuri ma riuscivano a sopravvivere nutrendosi di erbe spontanee anche nei territori più impervi.
Nelle culture contadine l’asino era così indispensabile per la sopravvivenza che spesso veniva battezzato entrando di diritto a far parte della famiglia allargata. Era in effetti il fulcro di tutte le attività che si svolgevano durante la giornata e la sua morte causava profonda disperazione, quasi più della scomparsa di un parente.
La prima cosa che faceva il contadino al suo risveglio era andare a prendere l’asino nella stanza dove dormiva, che in genere era attigua alla sua poiché doveva essere protetto e riscaldava gli ambienti domestici con il suo fiato. Inoltre era usato per andare a prendere l’acqua alla fonte, per costruire case e muretti a secco, arare il terreno, macinare il grano, attraversare lunghe distanze trasportando merci e alimenti.
Inoltre, quando le donne avevano troppi figli e poco latte, i bambini venivano nutriti dall’asina mammara.
È senza dubbio la creatura che ha accompagnato più da vicino l’evoluzione dell’umanità nei secoli e continua ancora oggi ad affascinare e sedurre grandi e piccini ricordandoci del nostro passato.
Uno studio dell’Università di medicina veterinaria di Milano, al quale ho partecipato, afferma che uomo e asino sono le due specie diverse che negli anni hanno imparato meglio a comprendersi sviluppando un linguaggio comune grazie alle ore di duro lavoro condiviso insieme».

Di canti e di cunti

Percorriamo un sentiero che costeggia l’autostrada in direzione della costa, tra faggete, castagni e i crinali dei monti Serramale e Gada. Siamo nel cuore del Parco Nazionale del Pollino, stretto tra due mari, che per la sua collocazione gode di un microclima particolare e di una vegetazione rigogliosissima, prevalentemente a macchia mediterranea, anche per via delle numerose fonti e sorgenti naturali.

Dopo circa quattro ore raggiungiamo Ajeta inerpicandoci su una vecchia mulattiera che si snoda lungo il costone della montagna dove il piccolo borgo è arroccato. Il paesino è molto curato, con case dalle forme irregolari e stretti vicoli di ciottoli di pietra. La gente del luogo è cordiale e un gruppo di bambini accorre in piazza a salutare Cometa, ospite ormai abituale da queste parti.

scorcaitoia verso Ajeta

scorciatoia verso Ajeta

Ad aspettarci, accanto alla fontana, c’è Nando Brusco, percussionista e cantastorie, che tra poco si esibirà con lo spettacolo Tamburo è voce. Storico di formazione e appassionato di antropologia, questo musicista continua la sua ricerca artistica e personale consultando archivi, studiando testi e documenti antichi, parlando con la gente e rielaborando poi in modo sincretico le diverse fonti. «Spesso mi ispiro alla poesia dialettale, che per me costituisce una sorgente inesauribile di informazioni su fatti realmente accaduti tratteggiando delle figure meravigliose e lasciando emergere il contesto delle diverse epoche» racconta, mostrandoci i suoi strumenti di diversi diametri, provenienze e fatture.

Poi cala il silenzio, le luci soffuse e giallognole dei lampioni del centro storico avvolgono il pubblico raccolto attorno all’artista che con delicatezza e maestria comincia a suonare. Le sue mani si muovono come farfalle scivolando con estrema grazia sulle pelli che sprigionano un suono pulito e denso mentre la voce si intreccia al ritmo delle percussioni raccontando storie di mondi ormai scomparsi dove personaggi quasi dimenticati hanno vissuto, amato e lottato con coraggiosa e commovente intensità.

«Normalmente i cantastorie si servivano di un cartellone dove erano illustrate le scene raccontate su quadretti numerati dipinti a mano», spiega Nino Racco, altro ospite della rassegna artistica organizzata in occasione di ViaggioLento. «Uno dei motivi del declino dello spettacolo cantastoriale è stata la presenza crescente delle automobili che creavano una difficoltà uditiva notevole interrompendo la comunicazione interumana e costringendo l’artista ad aumentare il volume della voce. Molti cominciarono a usare gli amplificatori, le cosiddette trombe, e alcuni nella seconda metà degli anni Ottanta registrarono i primi vinili per venderli durante gli spettacoli e assicurarsi, così, un ulteriore guadagno. L’irrompere della modernità segnò l’inizio del loro inevitabile declino».

spettacolo di Nino Racco ad Ajeta

spettacolo di Nino Racco ad Ajeta

Poi comincia lo spettacolo.

Con voce e chitarra, alternando prosa e canto, modulando il timbro vocale a seconda del personaggio interpretato e facendo un uso misurato e attento dei gesti e dei movimenti corporei, l’artista racconta la tragica fine della Baronessa di Carini, uccisa dal padre barone per aver ceduto al suo giovane e proibito amore, o la favola di Colapesce, molto diffusa tra i paesi che si affacciano sullo Stretto di Messina.

Davanti alla facciata in pietra del municipio di Ajeta assistiamo, rapiti, all’antico rito della narrazione, coinvolgente e catartico al tempo stesso, che da secoli continua a regalare a grandi e piccini momenti ricchi di fascino e poesia.

Camminare libera i pensieri

Mi sveglio all’alba e approfitto del silenzio della mattina per sgattaiolare senza far rumore dalla camera che condivido con altre compagne di viaggio e spostarmi, zaino in spalla, verso il mare.
Nessuno mi aveva detto che camminare crea dipendenza, e rimango quasi stupita dell’irrefrenabile desiderio che mi spinge a farlo, malgrado la stanchezza fisica accumulata negli ultimi giorni.

In strada non c’è quasi nessuno, a parte qualche pigro muratore ancora assonnato che in bicicletta si dirige controvoglia verso il cantiere e qualche anziano che passeggia in compagnia del cane con un giornale sotto il braccio.
Mi dirigo verso la costa e, arrivata in spiaggia, proseguo affondando i piedi nudi nella sabbia, ancora fresca a quest’ora del mattino.
Sul bagnasciuga, solo qualche accanito pescatore.
Il sole è morbido, offuscato da poche nuvole chiare trasportate da una piacevole brezza.

Procedo in silenzio, seguendo il ritmo cadenzato del mio respiro e il battito del cuore che sembra essersi regolarizzato, ascoltando il rumore delle onde che scivolano tra i sassi.
Più o meno a metà strada verso nessun luogo, decido di fermarmi per riposare un po’.

Mi siedo davanti al mare, restando in silenzio. In lontananza si sente il verso di qualche gabbiano che segue gli ultimi pescherecci di ritorno dalla notte passata al largo.

Respiro per qualche minuto tenendo gli occhi chiusi e mi tornano in mente le parole di Milan Kundera:

Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri fra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura?

Mi sdraio pensando con aria un po’ trasognata ai vagabondi che dormono sotto le stelle.
Dopo un po’, mi alzo e mi rimetto in cammino.
Non so ancora dove andrò, ma so che ci andrò lentamente.

pecore al Carro. ci fermiamo alla sorgente per l'acqua.

pecore al Carro. ci fermiamo alla sorgente per l’acqua.

 

Il prossimo ViaggioLento si terrà nel Parco Nazionale del Pollino dal 17 al 22 agosto in collaborazione con il progetto itinerante Netural Walk a cura di Casa Netural e attraverserà i borghi di Tortora, Ajeta, Piani del Carro, Laino Borgo e Castelluccio.

Per informazioni e iscrizioni:

NaturalWalk3 | facebook.com/events/375174286020169/

Twitter: twitter.com/CasaNetural

Sito Web: benetural.com/

www.viaggiolento.it

www.movimentozoe.com

www.ninoracco.it

Nando Brusco Cantastorie | facebook.com/NandoBruscoCantastorie?fref=ts

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Taccuini illustrati

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Castelli di carta da Fosdinovo a Pietrasanta

Dalla Lunigiana dei Liguri-Apuani fino alle dolci colline del Chianti, i taccuini illustrati della nostra illustratrice ci trasportano tra torri merlate, fossati, passaggi segreti e cinte murarie lungo la Via di pellegrinaggio più antica di Europa. Molte sono le leggende legate a queste imponenti fortezze, ricchissime di storia e incastonate tra paesaggi suggestivi e affascinanti.

Alcune raccontano degli eredi di importanti casate, come i Malaspina e i Pallavicini, altre dell’invasione giacobina della Repubblica di Lucca, altre ancora dei fasti della città di Siena. Con schizzi, bozzetti e acquerelli realizzati a mano, l’artista riproduce scordi di grande bellezza sia naturalistica che architettonica, restituendo tutto l’incanto e la magia di un territorio che ha ancora tanto da rivelare.

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Castello Malaspina, Fosdinovo provincia di Massa e Carrara

 

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Castello Aghinolfi, Montignoso provincia di Massa e Carrara

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ruderi del Castello della Brina, Bassa Val di Magra comune di Sarzana

 

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dalla Nuova Zelanda alla scoperta dell’Antartide

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dalla Nuova Zelanda alla scoperta dell’Antartide

Il 2016 di The Trip riparte dal viaggio. E riparte da un racconto di viaggio poco convenzionale.
Un viaggio di scoperta, ai confini del mondo.
Insieme al giornalista Stefano Valentino saliremo a bordo della nave Italica, salpando dalla Nuova Zelanda alla scoperta dell’Antartide.
L’Italica é la nave che trasporterà la Spedizione 2016 del Programma Nazionale di Ricerca in Antartide (PNRA) nella Baia di Terranova, dove è situata la base italiana Mario Zucchelli.
É proprio là dove finisce il mondo che Valentino ha deciso di navigare, insieme al team di scienziati e tecnici del PNRA. Immenso laboratorio a cielo aperto, il regno dei ghiacci per eccellenza è il punto del globo dove i grandi fenomeni terrestri convergono e si celano molte delle risposte su passato, presente e futuro.

SEGUI LA DIRETTA QUI: Liveblog

Valentino, per circa un mese, racconterà la missione attraverso un diario di bordo multimediale, pubblicato in tempo reale o quasi (il fuso orario di “sole” 12 ore che ci separa dall’Italia non aiuta).
Un ambizioso tentativo di portare l’avventura della scienza nella vita quotidiana dei lettori dai luoghi più remoti del pianeta.
Seguici e tappa dopo tappa, viaggerai insieme a noi!

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Uganda, La perla dell’Africa

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Uganda la perla dell'Africa

Tu lo guardi intensamente. Sei affascinato e un pochino preoccupato, i fasci nervosi sono in tensione.
Tra il fitto fogliame della foresta, su una parete verde gocciolante pioggia, improvvisamente ti appare. E al primo impatto ti toglie il fiato. Il primate chiamato gorilla è davanti a te, sette/otto metri non di più, forse meno. Tu fermi quasi il respiro di fronte all’esito del tuo duro cammino, attraverso canali di acqua e di fango. E’ lì davanti a te, per lui hai percorso cinque mila chilometri, in una specie di appuntamento che hai cercato e sperato per tutto l’anno.
All’inizio ti snobba. Non si cura di te. E’ sdraiato su un letto di foglie e radici aeree e con sé c’è la famiglia: moglie, figliolino, e altri quattro esemplari. I due rangers sono vicini con i fucili mitragliatori carichi all’evenienza e pronti a intervenire sono anche i portatori, uno per ogni escursionista. Non succede nulla, salvo l’atto di amore tra due specie di primati (uomo e gorilla) che si scrutano da una distanza che ora è di cinque metri. E’ uno spettacolo unico che da solo merita un viaggio in Uganda, una delle tante perle dell’Africa nera. E’ un’esperienza che ti porta a vivere in prima persona “ a humbling and exciting adventure”.
Due gorilla, che non fanno parte del gruppo, sono su due alberi vicini e un terzo dorme come un ghiro sotto un albero un po’ più distante. Sono rappresentanti di un mondo di gorilla stimato in circa 9 milioni di unità. Sono loro i tuoi progenitori, padre e madre ancestrali. Sono quello che tu eri e questa ascendenza te la senti dentro. E’ un incontro quasi escatologico.
Nel silenzio profondo della foresta si ascolta lo sgocciolio della pioggia che scivola via dalle foglie e il crepitio delle macchine fotografiche. I gorilla ora partecipano al balletto degli occhi: è festa, è tutto un reciproco guardarsi! E il piccolino curiosissimo ogni tanto lascia l’abbraccio della mamma e si avvicina verso di noi. Ma la mamma allunga il braccio e lo riporta indietro. Il papà cambia posizione e mostra la schiena argentata, una specie di silver carpet sul quale scivola la luce bagnata che filtra dagli alberi.
Se volesse, grosso com’è (non a caso la fantasia umana ha su di lui ideato e creato la figura di King Kong), con un solo braccio ti schiaccerebbe. Ma il gorilla non vuole, è nel fondo mansueto e – dicono gli studiosi – affascinato a sua volta di vedere davanti a sé propri simili tutto colorati rispetto al nero del suo mantello e della pelle.
E nel mentre tu “ parli” con il gorilla ( che qui chiamano Bruno, guarda tu il caso!), senti le mani e le braccia della foresta, vedi il fango invasore del territorio e dei tuoi vestiti, le orme degli elefanti e di altri animali.
Emozionante: la foresta impenetrabile di Bwindi (siamo al confine con la Repubblica democratica del Congo, il fatto è segnalato dal cellulare che ti dà un anticipato benvenuto, come se tu fossi di là) è clamorosamente bella. E vorresti entrare negli occhi del gorilla per vedere come lui vede la natura, di quale colore, di quale intensità emotiva, la madre natura che gli dà vita, cibo, gioie, dolori. Dolce, anche se dannatamente faticoso, il rientro, con il capofila che usa in continuazione il machete per fare strada attraverso il viluppo degli arbusti. Camminiamo con fatica non avvertita: gli occhi della mente vedono solo che si è vissuto poco prima in modo intenso!
Tutto è iniziato tre giorni prima con il volo Ethopians Airlines Fiumicino – Addis Ababa ( che è un po’ l’aeroporto hub di vari nazioni dell’Africa orientale) e poi Kampala, lucidata a festa per la visita di Pope Francis. Dalla capitale inizia il tour organizzato in modo impeccabile dall’Uganda tourism board (Utb) presso il Ministero del Turismo, tutti sotto l’ala protettrice, esperta e sagace dell’accompagnatrice ufficiale Faridah Ddamulira.

Si atterra a Entebbe, il famoso aeroporto nel quale gli israeliani nel 1976 (sono giusto 40 anni) compirono uno dei più clamorosi gesti contro i terroristi palestinesi e tedeschi che avevano dirottato un aereo con 260 persone e bordo e atterrato in Uganda. Durante la notte arrivarono con un aereo che volava quasi a sfiorare le acque del lago Victoria e dopo una sparatoria (nel complesso 10 vittime circa) ripartirono con gli ostaggi. Il mondo restò senza fiato di fronte al clamoroso risultato!
Da Entebbe a Kampala sono una cinquantina di chilometri. Il tassista ci dona due ore di relativo spavento con una guida spericolata tra un traffico incredibile (a Kampala spesso si è bloccati in strada tanto è il traffico a ogni ora del giorno!). Motorini, motoveicoli, motociclette, bici : il casco è un optional poco gradito.
Il giorno dopo ritorno a Entebbe per un volo interno con un mezzo minuscolo di 15 posti. Si sorvola la costa del lago Victoria piena di isolette. Dall’alto il paesaggio sembra non avere rilievi, si ha l’idea che sulla terra e sull’acqua sia passato il ferro da stiro. Verde a non finire. Più in là il paesaggio inizia a muoversi, ondularsi, crescere in altezza, diventare rugoso. Stagni e boschi si susseguono: è un paradico “aquarboreo”. La natura sembra uscita da un salone di bellezza!
Dopo il riposo notturno a Clouds Lodge (per arrivare all’albergo ci sono 80 chilometri di via sterrata, ricoperta da spuntoni di roccia che ti fanno sentire sulla diligenza del far west) si entra nel Queen Elisabeth National Park ed è qui che dopo una marcia davvero non leggera c’è l’incontro con i gorilla.
Ma Uganda è il regno di tanti altri animali. Nel parco nazionale c’è tutto il regno animale.
Ma per darne un solo accenno, ci sono leoni che vivono sugli alberi. Arriviamo intorno a due alberi sul limitare di un piccolo stagno artificiale per dare acqua agli animali e ci fermiamo dentro la macchina. I leoni sono sulla nostra testa, sono una ventina e tutti accomodati sui rami a fare la siesta. Uno spettacolo davvero unico. Sembra che passino la massima parte del loro tempo quotidiano sugli alberi, per avere il posto d’onore su un palcoscenico riempito da tanti attori: eleganti, buffalo, antilopi, kampala, cinghiali, iene, leopardi. Nel pomeriggio costeggiamo con il battello Kazinga Channel , via d’acqua che unisce i laghi George e Edward. E’ l’apoteosi di animali nell’acqua: ippopotami, coccodrilli, aigrette, uccelli a non finire … Ma soprattutto ci imbattiamo nella più grande concentrazione africana di “ippo” che quando aprono la bocca rosata sembra che con un solo boccone possano inghiottire il mondo.

Uganda la perla dell'Africa - gorilla Uganda la perla dell'Africa- i Bufali Uganda la perla dell'Africa- uccelli Uganda la perla dell'Africa - ippopotamo Uganda la perla dell'Africa Uganda la perla dell'Africa

E’ tempo degli chimpanzee.
Con cinque rangers ci addentriamo tra fango e sterpaglie nella foresta inseguiti dalla urla delle scimmie. Lo spettacolo è orrido ed emozionante. Le urla sono violente e spettrali. Gli enormi bestioni volano da un albero all’altro con la leggerezza della libellula. Stanno recitando l’eterna “divina commedia” dell’amore, combattono per le femmine. Ma chi vince lo fa solo, diciamo così, per spirito sportivo perché poi le femmine dopo l’assaggio iniziale del protagonista sono di tutti, consolidando in tal modo la pace del gruppo. E tutto ciò è molto bello: il bebè sarà allevato da una madre e da una moltitudine di padri in perfetta letizia.
Nel viaggio attraverso Uganda passiamo ai piedi della estesa e massiccia catena del Ruwenzori, tanto studiata sui banchi di scuola. Vedendo di più distanza si notano sette file di montagne messe in parallelo: la più piccola davanti e via via le successive sempre più alte per arrivare alle vette che sfiorano i 5 mila metri. Una specie di spettacolare gradinata (fumigante quando cessa l’abitudinario acquazzone) verso il cielo, un ascensore naturale verso la meditazione e l’ascesi. Attraversiamo l’equatore con stop per le foto con le gambe divaricate sulla linea che divide il nord dal sud del mondo e ammiriamo il Nilo bianco che per convenzione nasce dal lago Victoria e che poi si riunisce con il Nilo azzurro a Khartum, capitale del Sudan. La parte ugandese che visitiamo è tranquilla, ha la classica maestosità di un fiume imperiale padrone del territorio, pieno di isolette boscose. Qui profaniamo la calma della natura con attività quali jumping, water rafting e quad biking.
Al Crater Park Lodge (creato sul cratere di un vulcano spento che ha creato un piccolo lago) niente luce artificiale (meno male che ho portato anche sapone e lamette oltre al rasoio elettrico) e la ricarica dei telefonini è collettiva: un po’ ciascuno da una sola sorgente. Il sole sta tramontando, una spada luminosa si adagia fluttuando sulle acque chete del laghetto. Alloggio sulle rive e il momento è magico.
Ora inizia la sinfonia notturna del gracidio delle rane: ha ritmo calibrato e continuo, è l’attestato della esistenza di creature animali dentro la natura vegetale.

Il tour nel territorio (siamo lontani dalla capitale) è affascinante e doloroso: paesaggio da cartolina, povertà assoluta. Villaggi di poche baracche, uomini seduti senza fare nulla, donne che lavorano i campi, in un immarcescibile dominio maschile che ancora regna nel XXI secolo. E polvere e pietraie e viottoli che non portano da alcuna parte, essendo i luoghi tutti uguali. Grandi bananeti, enormi campi di the, mais, patate, con coltivazioni a terrazzamenti per strappare la linfa a terreni scoscesi, aridi e sassosi. Un viaggio dolente con bambini con vesti lacere e lerce che con piccoli strumenti sulle spalle (zappe, asce, punteruoli, ecc.) vanno a lavorare, perché per loro non c’è gioco, c’è solo una vita fuori gioco … Unico squarcio di serenità e dolcezza: le continue file di bambini/ragazzi che vanno a scuola o tornano a casa. Lunghe file ai bordi delle strade, tutti vestiti con la divisa di ogni singola scuola, maschi e femmine. Uno spettacolo che rincuora e rende appagati i tuoi occhi oscurati da un filo di tristezza per l’umane sorti di popoli sicuramente non progressive.
Dove la bicicletta è l’unico o quasi mezzo di trasporto, sulla quale viene messo di tutto: caschi di banane, porte, finestre, utensili vari, che occupano più di mezza carreggiata. Non saremmo stupiti se trovassimo qualcuno che trascina sulle due ruote una baracca intera.

Siamo tornati a Kampala. Città bella e caotica, con un traffico al limite del delirio. Visita al complesso turistico Munyonyo commonwealth resort , immenso ( 1.000 dipendenti regolari + 300 stagionali), con tutti i comfort moderni, con oltre 60 suite. Entriamo in quella riservata al presidente Usa Obama e vediamo dove l’uomo più potente del mondo e family dormono, con vista sul lago Vittoria. E sul lago partiamo sul fare della sera dal porticciolo del resort con il grosso catamarano Amani Portbell. Un tramonto davvero incandescente che illumina con gli ultimi bagliori del giorno la costa per parecchi chilometri. Un complesso di ragazzi molto in gamba suona musiche antiche in lingua swahili, rilette e attualizzate con i toni e i ritmi jazz. Torniamo a notte fonda pieni di cameratismo per i colleghi di viaggio e di bicchieri di birra, sotto un cielo che ti offre milioni di stelle: allunga il braccio, sono tue, le puoi toccare! E ci scappa anche una visita a un allevamento di coccodrilli: ce ne sono 3.000, un numero pazzesco che ci viene fatto visitare da un’addetta pigmea (da ricordare che la prima etnia sul territorio ugandese è quella di Twa, popolo di pigmei) .

Alla sera – gli estremi fanno parte della vita – ballo in discoteca e visita al casinò Le Piramidi.
Kampala è vestita a festa per la visita del Papa Francesco. Puoi vedere il palazzo del re e il palazzo nel quale il dittatore Idi Amin Dada torturava i nemici; c’è la moschea donata da Gheddafi, c’è il museo … A proposito del dittatore abbiamo il piacere di conoscere di persona l’attore che nel film “ L’ultimo re di Scozia” sulla vita di Idi fa la parte del Ministro della sanità. E’ un conosciutissimo comico (ci ha ricordato Fernandel) che una sera presso la casa della cultura, di cui è direttore, ha deliziato il pubblico in un happening ricco di balli etnici fantastici.
E c’è grande festa per il Tourism Expo 2015 “Pearl of Africa” al Serena Hotel. Un evento di rilievo perché raduna buyers e tour operators di Usa, Dubai, Italia, Sud Africa, Nigeria, Kenya, Egitto, Tanzania, Rwanda. Un happening e una festa del turismo ottimamente organizzata dal ministro del turismo Maria Mutagamba, dal chairman dell’Utb James Tumusiime, dal ceo dell’Utb Stephen Asiimwe, dal capo del marketing Edwin Muzahura, e dall’executive director Andrew G Seguya.
Da 30 anni presidente dell’Uganda è Yoweri Kaguta Museveni, ma alla premiazione finale dell’Expo è presente il vice Edward Ssekandi. Alla finale serata finale salutiamo il primo ministro Ruhakana Rugunda. E – tanto per finire come abbiamo cominciato, cioè in bellezza- miss Uganda. Prototipo delle donne ugandesi, che incorniciano il loro viso, di per sé bello, con due occhi profondi che, se vogliono, ti fanno intravedere possibili eventi e situazioni gradevoli.

E’ notte. Si atterra ad Addis Ababa in attesa della coincidenza per Roma. In una saletta riservata la donna all’ingresso ti mette in mano un biglietto: il numero della password per comunicare tramite wi-fi. Si scatena la voglia di far conoscere alla cerchia di parenti e amici il gorilla Bruno and family. Come bambini decenni ci catapultiamo su wathsapp e iniziamo a digitare in modo forsennato messaggi con foto. L’animale reale perde il corpo e si tramuta in impulsi che viaggiano per l’etere in “tempo reale” e vanno ad acquattarsi nei cellulari di molte persone. Moltiplichiamo la figura del gorilla: due, dieci, trenta invii… E rendiamo partecipi “altri” dell’avvenimento che abbiamo vissuto, ma solo in senso mono dimensionale come può essere una foto.

L’emozione dell’incontro, che solo a pensarci ti fa ribollire il cuore, resta solo cosa nostra.
Impalpabile, indimostrabile. E non condivisibile.

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Lost in Luni

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ilaria-di-biagio-lost-in-luni-the-trip-magazine (1)

testo di Riccardo Melito | immagini di Ilaria Di Biagio

Risalendo lungo la via Francigena, nella tappa che va da Aulla ad Avenza, verso il confine con la Liguria, è d’obbligo sostare qualche ora nel sito archeologico di Luni, antico insediamento romano.

La città, situata alla foce del fiume Magra, non distante da Sarzana, venne fondata nel 177 a.C. dai Romani, come avamposto per la campagna militare contro i Liguri. Originariamente chiamata Luna, ebbe il suo periodo di massimo splendore sotto l’impero di Augusto, quando divenne il principale porto del Mar Ligure.

La sua crescita continua era stimolata dalla ricchezza di materie prime, soprattutto marmo e legno, e culminò nella costruzione di un grande anfiteatro da settemila posti, ancor oggi visibile. La fortuna della città continuò fino al VI secolo dopo Cristo, quando i barbari, attirati dalla sua opulenza, iniziarono a saccheggiarla. Pur rimanendo un centro importante, durante il Medioevo, i fasti di Luni volsero verso un costante declino.

ilaria-di-biagio-lost-in-luni-the-trip-magazine (2)Ultima notevole dimostrazione della sua importanza è l’elogio che Dante Alighieri gli tributa nel Canto XVI del Paradiso. Ora Luni è divisa in tre località nella più classica tradizione italiana: Luni Mare, Luni Stazione e Luni Scavi, quest’ultima dedicata all’area archeologica che comprende l’anfiteatro, parte dell’originaria città romana di Luna e un museo archeologico. Purtroppo la zona è piuttosto fatiscente e poco valorizzata.

La città ha dato il nome alla zona geografica della Lunigiana, tornata agli onori della cronaca come possibile nuova regione italiana con il nome di Lunezia, che dovrebbe accogliere al suo interno le province di La Spezia, Massa e Carrara, Parma, Piacenza, Reggio Emilia e Mantova, nonché una parte di quelle di Cremona e di Lucca. Si dice che ammirare il tramonto dalle rovine dell’originaria città romana sia un’esperienza unica dalle forti tinte psichedeliche e i più entusiasti si sbilanciano affermando che addirittura sia meglio che assistere a un concerto dei Pink Floyd a Pompei.

TAPPA N. 3 DA AULLA AD AVENZA

A Luni visitate il Museo archeologico e i resti della città romana: il foro, la casa degli affreschi, l’anfiteatro. Proseguendo si rientra in Toscana e si raggiungeAvenza, in prossimità di Carrara.

tappa numero 3 da Aulla ad Avenza

tappa numero 3 da Aulla ad Avenza

Partenza: Aulla, Abbazia di S. Caprasio
Arrivo: Avenza, Torre di Castruccio
Lunghezza Totale (km): 32.4
Percorribilità: A piedi, in mountain bike
Tempo di percorrenza a piedi (ore.min): 8.00
Dislivello in salita (m): 718
Dislivello in discesa (m): 768
Quota massima (m): 539
Difficoltà: Molto Impegnativa
Strade pavimentate: 63%
Strade sterrate e carrarecce: 15%
Mulattiere e sentieri: 22%
Ciclabilità: 90%

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Tutta l’America Latina senza mai prendere l’aereo

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Ipiales, frontiera Colombia-Ecuador

Testo di Rocco D’Alessandro

Foto di Giulia Magnaguagno

 

Era un’estate come tante, forse più afosa del solito. In città il caldo era insopportabile per via del tanto cemento, senza parlare dello smog. Io ero seduto nella piccola cucina del vecchio appartamento dove vivevo assieme a Giulia e ad altri due ragazzi. A Roma gli affitti sono cari, così tocca ricorrere alla convivenza coatta.

Abitavo al quarto piano di uno dei tanti palazzi in stile fascista che affollano la periferia romana, proprio a ridosso di Cinecittà. La finestra era aperta, con la speranza di captare qualche soffio di vento, invano. Scrutavo l’orizzonte, ma da lì l’unica cosa che vedevo era il balcone del palazzo di fronte. Fatiscente, invecchiato dal tempo e soprattutto dall’incuria.

Ebbene è in questa gabbia metropolitana, affollata e senza prospettive, che germinò un sogno destinato a diventare realtà, o meglio progetto.

Quando Giulia mi propose per la prima volta di attraversare tutta l’America Latina, io non avevo minimamente presente la portata di quella proposta. Da quel giorno, passarono i mesi, ma quella scintilla faceva fatica ad affievolirsi, anzi, diventava sempre più forte.

Pian piano maturavo nella mente la possibilità di partire, cominciai così a proiettarmi prima in Brasile, poi in Messico, addirittura in Honduras e Guatemala, paesi di cui sapevo a malapena la collocazione geografica. Mi vedevo attraversare foreste, mi immaginavo alla ricerca di antiche rovine, conoscendo genti, popoli, persone. La mia fantasia cominciava a farsi sterminata, e con essa la mia voglia di preparare lo zaino.

Io e Giulia lavorammo intensamente, senza tregua e quell’estate passò così, com’era iniziata, lenta e afosa.

Di solito, anzi quasi sempre, ci troviamo a lavorare per altri, senza la giusta ricompensa. Non ci diamo valore, regaliamo il nostro tempo, la nostra professionalità, per cosa poi? Per pagare l’affitto di una camera, nemmeno di un’appartamento? Ci ritroviamo così estromessi dal nostro ambiente, lontani dai nostri mondi uterini, senza saperne la ragione, ma solo per “campare”.

Vitamina Project nacque per questo, per restituirci il nostro tempo, la nostra vita e soprattutto per prospettarci un futuro più appassionante, e soprattutto più nostro.

Il giorno in cui partimmo, era un 11 dicembre di un anno qualsiasi (2014 nds), non sapevamo minimamente quando saremmo tornati, perché avevamo preso solo il biglietto d’andata. Volutamente. Avevamo un po di paura, ma su tutto prevaleva la voglia di metterci in gioco e di attraversare l’ignoto più che di un continente, della nostra interiorità.

Avevamo sempre amato l’America Latina, ma solo attraverso i libri, la Storia e le corrispondenze con gli amici. Mai attraverso la vita. Non sapevamo cosa aspettarci.

Molti dubbi, ma soprattutto prospettive, orizzonti di viaggiare lontano attraverso persone, sentieri e paesi sconosciuti.

Decidemmo soltanto due punti nello spazio: uno di partenza, Buenos Aires, ed uno di arrivo, Los Angeles. In mezzo poche certezze, se non la decisione di viaggiare senza prendere aerei. Se tanto ci dovevamo mettere in gioco, ci sembrava giusto farlo totalmente. Volevamo che fosse un viaggio dell’anima, darci il tempo di scoprire, conoscere, considerare. In fondo eravamo sognatori, lettori, studiosi. Gli scatti di Giulia ci avrebbero aperto la strada di un altro mondo, a tratti onirico, a tratti reale, e la mia scrittura ci avrebbe aiutato a divulgare le nostre esperienze, e perché no un giorno a ricordarle metaforicamente. Eravamo in cerca del viaggio! Ora, nessuno può dare una definizione precisa di Viaggio, quel che è certo è che si tratta di un istinto che non tutti hanno.

Il viaggio è un incedere, si, ma anche un innalzamento, mentale più che reale. Alla base della nostro traiettoria c’era la voglia di dimostrare che viaggiare in nome della Natura e delle Genti è possibile. Nell’era del turismo globale, viaggiare diventa un incarico da prendersi a cuore, una responsabilità, al fine di abbattere le barriere ideologiche, più che fisiche, dietro le quali ci trinceriamo subdolamente.

Viaggiando scoprimmo posti, ma soprattutto conoscemmo persone, ascoltammo storie. Vivemmo in molte comunità, spesso lontani dal mondo delle città, dal quel mondo cosiddetto civile. Eppure non ci mancò affatto. Le comodità, i lussi, le tecnologie a cui non siamo disposti a rinunciare, fanno ormai parte di noi, ma forse sono proprio queste che ci impediscono di spingerci più in là , di conoscere quell’universo che tanto “conosciamo” attraverso lo schermo di un computer e di una rete globale. Ma non è così. Vitamina Project ci portò ad attraversare ben 13 paesi. Per far ciò impiegammo 12 mesi, un anno di sorprese, a tratti di grandi sofferenze, mentali e qualche volta anche fisiche. Dietro di noi non c’era nessuna agenzia ad indicarci il cammino, e forse è proprio grazie a questa nostra “solitudine” che conoscemmo persone straordinarie e luoghi incantati.Processed with VSCOcam with m5 preset

Quella così discussa insicurezza che aleggia sul continente latino americano non ci compromise minimamente, non perché non esistesse, quanto piuttosto noi non la considerammo. Una “buena vibra” genera solo altre vibrazioni positive.

Questo ci insegnò il viaggio, e questo ci mostrarono le persone. Poco importa se fossero brasiliane, uruguaiane, colombiane, panamensi, costaricane, quel che ci importava solo era conoscere, viaggiare, esplorare e documentare. L’idea finale, anzi quella con cui eravamo partiti, non era di un viaggio fine a se stesso, bensì di un progetto a lungo termine che sensibilizzasse a viaggiare responsabilmente nel rispetto dell’ambiente e delle varie culture.

Ci avremmo messo anche la faccia e la voglia di aiutare altri viaggiatori. Come? Creando una nuova collana di guide turistiche, dal nome molto simpatico e positivo: Guida Vitamina. Una serie di libricini che mostrassero la via ad altri camminanti, parlando di natura, di eco-sostenibile, di letteratura e di fotografia. Quei libricini li stiamo ancora scrivendo, ma il nostro progetto oggi esiste ed è realtà, si chiama Vitamina Project e per farlo abbiamo viaggiato un anno intero attraversando tutta l’America Latina senza mai prendere l’aereo!

Giulia con i bambini della comunità dei Kuna Yala, Panama Ciudad Perdida - Colombia Canyon del Sumidero- Mexico Ipiales, frontiera Colombia-Ecuador

 

La settimana prossima Rocco e Giulia ci porteranno in uno dei Paesi più originali e meno turistici del Centro America, ma non vi diciamo quale, la curiosità allieterà l’attesa.

Allora li seguiamo?

 

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Matrimonio sulla Transiberiana

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Transiberiana

di Tommaso Iorio e Federica Spurio Pompili

 

La Transiberiana è più di una linea definita su una mappa, è un concetto astratto, un luogo della mente, un posto nel cuore.

transiberiana 2

Mosca/Москва: partenza – Nella Santa Madre Russia, anche se rappresenta 1/3 delle terre emerse del mondo, tutto parte da Mosca. Anche noi, quindi. All’uscita del Domodedovo il tassista sfreccia liberamente a 200/h sull’autostrada a 5 corsie, non parla altro che russo. Periferia. Molte città raccontano parecchio anche dalle periferie. Quella a nord di Mosca l’abbiamo trovata diversa rispetto a Kiev o San Pietroburgo. È in atto una corsa al cemento incredibile, costruzione di case alveari ancora più grandi di quelli soviet style, forse architettonicamente più armoniose, ma comunque angoscianti, nuove centralità dove la vita sarà grama.

Il centro di Mosca invece rispecchia l’opulenza degli ultimi anni. L’immagine che ci è rimasta più impressa? Coppia, tarchiatello lui con camicia e pantaloncini, modella siberiana lei. Non tanto per questo, ma per il valletto venticinquenne aggraziato che, dietro a loro, portava le buste degli acquisti super costosi. Davanti alla Lubianka ormai svetta un centro commerciale enorme, interamente dedicato ai bambini. Piani e piani di vestiti e giocattoli. Ma Anche spettacoli, giostre e spazi ricreativi, compreso quello di Orso e Masha. Tutto di fronte alla prigione e sede della polizia politica. Dove un tempo si privava del futuro adesso, a distanza di tempo, si cerca di renderlo il più confortevole possibile.

transiberiana 3

Treno #004 – Il nostro treno parte alle 23.45, il numero 4 con capolinea Pechino. Mentre andiamo verso la stazione Yaroslavsky siamo eccitati come dei bambini che stanno per incontrare una persona importante. Per noi l’incontro è con quel treno che abbiamo spesso sognato e immaginato nei modi più disparati. La stazione, anche se in periferia, è luminosissima e, soprattutto presidiata. Non potrebbe muoversi uno spillo senza che esercito o polizia lo sappiano. I viaggiatori attendono pazienti. I più disparati: famiglie, donne con bambini, preti, militari. Tutti pronti per un lungo viaggio, ovunque debbano andare. Il treno in Russia è ancora mito, è ancora IL mezzo di trasporto. È ancora romantico. È condivisione. È meraviglia. È popolo.

Attendiamo un po’ e una volta il binario appare sul tabellone, ci incamminiamo. La destinazione del treno è Pechino, quindi è gestito a metà tra ferrovie russe e cinesi. Il vagone ristorante e un altro di seconda classe sono russi, mentre tutti gli altri, compresi i 2 di prima classe, sono cinesi. La gestione funziona a vagone, ciò significa che i vagoni russi sono gestiti da russi e quelli cinesi da cinesi. Come comunicano? Rimane un mistero. Troviamo il nostro vagone e saliamo. Al controllo il “provodnik” cinese ci continua a ripetere insistentemente, sempre più vigorosamente, una domanda in mandarino che per noi è effettivamente impossibile comprendere. Ci salva James, un ragazzo cinese che vive a Coventry (UK) e torna a casa per le vacanze, ospite di uno degli scompartimenti vicino al nostro. Il controllore voleva sapere dove scendessimo. quando gli abbiamo detto Irkutsk, cioè 4 giorni dopo, ha alzato la mano e l’ha portata dietro la spalla nel più classico gesto romano del “aaaah vabbè e me lo potevi dì prima no!?.

Il gioco del Tetris nello scompartimento è durato il dovuto, ma alla fine tutto si è incastrato alla perfezione. Abbiamo subito tolto le sopraccoperte che gridavano aiuto e disinfettato tutto, messo le lenzuola, e ci siamo addormentati. Lo scompartimento di prima classe dei treni cinesi (Ruanwò) ha una doccia e lavandino in condivisione con lo scompartimento accanto, mentre i bagni sono due in condivisione con il vagone. Nel vagone di prima classe ci sono solo 16 persone. Sul nostro però siamo solo 4. Noi, James e Niels un ragazzo tedesco di 19 anni (nel suo anno libero tra il liceo e l’università) che starà 3 mesi fuori e arriverà fino in India. (I tedeschi sono matti).

Il gestore del vagone ristorante è un tipo taciturno dalla faccia dura, assolutamente preciso, che tiene molto a fare il proprio lavoro al meglio. Dopo qualche tempo abbiamo provato a parlargli in russo, e allora si è sciolto come il burro. I russi non sono duri, li disegnano così. Se anche solo provi a comunicare nella loro lingua, ti dimostrano che apprezzano veramente tanto il tentativo e cercano di aiutarti con un gran sorriso.

Proprio al vagone ristorante abbiamo conosciuto Malcolm, un signore di una 50ina d’anni neozelandese che ha passato la sua vita sulle navi, sia da carico che da crociera. Ha visto praticamente ogni porto e solcato i sette mari. Del resto la sua barba grigia gli da una vaga aria da vecchio filibustiere.

La stessa sera abbiamo conosciuto anche Antonio, di Alicante, che viaggia solo e parla poco. Anna, una ragazza tedesca che viaggia sola e dopo Pechino andrà in Vietnam, Birmania e, successivamente in India. (I tedeschi sono matti).

Einstein forse non è mai stato in Russia, ma la sua teoria della relatività del tempo si applica perfettamente alla Transiberiana. Sul treno il tempo si dilata e la percezione di esso è mutevole. Il convoglio viaggia verso est con l’orario di Mosca. A bordo c’è sempre l’ora di Mosca. Fuori invece, man mano che ti inoltri nella Russia profonda il sole sorge prima e i fusi orari cambiano, così come gli occhi dei viaggiatori si allungano. Tu viaggi con l’ora di Mosca, ma appena sceso da questa macchina del tempo ti catapulti 2, 3, 4, 5 ore avanti. Tutte le stazioni russe mostrano l’ora di Mosca perché tutti i treni viaggiano con quella, quindi potreste trovare una stazione, come quella di Irkutsk, che alle 7 di mattina mostra come orario le 2 di notte. Il principale problema è la ricerca del lento variare del tuo metabolismo. Quando ti alzi? Quando mangi? Quando dormi? È tutto relativo.

Il “passa” – “tempo” non c’è nome più azzeccato. Effettivamente ne abbiamo escogitati parecchi. La nostra giornata tipo sul treno è caratterizzata da una sveglia indefinita tra l’ora di Mosca e l’ora locale, una colazione con le nostre tazze kitsch piene di thé o caffé insieme a macine e gocciole, trucco e parrucco a turno, un film (abbiamo organizzato gli iPad con diverse nuove visioni), una passeggiata nella stazione di turno, il pranzo, riposino con libri e scrittura dei diari, quattro chiacchiere con uno dei nostri amici di passaggio, cena, altra stazione, altro film o lettura-scrittura. Alla fine la dilatazione del tempo, che forse all’inizio ci spaventava visto che venivamo dalla vita frenetica di Roma, ci è corsa incontro regalandoci un relax inaspettato.

L’ultima sera a bordo prima di scendere a Irkutsk (poi sarà la volta di Ulan-Bator e Pechino) passa in malinconia. Ormai ci fa strano dover lasciare questo paese viaggiante, fatto di tante lingue, tante culture: russa, cinese, tedesca, italiana, francese, spagnola, neozelandese, britannica, pronte a condividere esperienze, pensieri, cazzate ma anche solo una birra. Si era creata una particolare routine e anche i rapporti umani si stavano consolidando. Con i cinesi abbiamo apertamente parlato del Partito, di Piazza Tiananmen e del terrorismo in Italia. Nuove generazioni, niente più barriere. Abbiamo detto ciao alla comitiva con una cena tutti insieme salutando anche il nostro amico del ristorante. Proprio stasera abbiamo scoperto essere in realtà turco di origine, chissà che strana vita avventurosa ha avuto. Sappiamo solo che il sorriso che ci ha regalato quando lo abbiamo ringraziato con un sentito Tessekür ederim (“grazie mille” in turco) ce lo porteremo per sempre nel cuore.

 

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Sul tetto del mondo. Scalare il Kilimangiaro d’estate

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kilimangiaro

di Assia Federica Orneli

Non credo che riuscirò ad esprime l’emozione che si prova a scalare una montagna e, non parliamo di una montagna qualsiasi…!

Oltre ad appartenere ad una delle Seven Summit del pianeta, il Kilimangiaro è la montagna più alta del continente africano e la vetta più alta del mondo (tra quelle che non appartengono ad una catena montuosa).

Si erge a 5895 metri di altezza, sopra le nuvole, talmente in alto che ti sembra di volare su una navicella spaziale dalla quale il mondo appare piccolissimo, con il sole che ha appena albeggiato ed un cielo di un blu che non si può più scordare. 

kilimangiaro 2

Ho iniziato ad organizzare questa avventura qualche mese prima di partire. Devo dire che non è stato per nulla facile: le informazioni erano confuse, non si riusciva a capire se realmente bisognasse essere scalatori esperti o semplicemente dei pazzi in cerca di adrenalina. Districandomi tra i vari blog, le poche, pacifiche informazioni erano che si trattasse di un viaggio per “tutti”, (salvo ovviamente coloro che soffrissero di problemi cardiaci o polmonari), ma parecchio costoso. Una volta capito, finalmente, di avere i requisiti per questa impresa, ho cercato delle agenzie locali (principalmente su Arusha e Dar Es Saalam) che potessero farmi un preventivo meno oneroso. Devo ammettere che è stata la mossa vincente! Dopo qualche email, rassicuratami sul fatto che fossero persone oneste e preparate, ho prenotato la “scalata” (dal costo di mille euro circa), scegliendo per motivi di tempo la route più breve e di conseguenza ripida: la Machame route.

Ho volato il primo agosto 2012 con la compagnia Emirates facendo uno scalo notturno a Dubai. Arrivati ad Arusha il nostro driver, che sarebbe poi diventato uno dei nostri “portatori”, ci ha accompagnato in un “confortevole” Hotel con vista sul Kilimangiaro – che già visto da lontano ci iniziava ad incutere qualche timore.

Il primo giorno abbiamo conosciuto “la compagnia”, composta da due guide, tre portatori, un cuoco e un tuttofare (noi eravamo in due con ben sette persone a nostro servizio!). Dopo i saluti di rito, siamo entrati nella Machame Gate, la Porta del Kilimangiaro, così mentre registravamo ufficialmente la nostra scalata nel parco naturale, di fronte a noi trovavamo un grande cartello che illustrava le dieci regole per salire sulla montagna, ed una serie di rischi ed avvertimenti fra i quali, gli eventuali che può arrecare il c.d. “mal di montagna”.

Dopo poche ore di cammino siamo arrivati all’interno della Natural Rain Forest, nome non casuale, nella quale, appunto, ci attendevano cinque ore di pioggia battente. Demoralizzati e bagnati cercavamo di prendere sonno, nonostante i primi pensieri negativi iniziassero ad aleggiare nelle nostre menti. Va da sé infatti, quanto le condizioni climatiche possano influenzare il morale e le giornate soprattutto in un viaggio di questo genere. Devo ammettere che in quel momento il desiderio di abbandonare tutto è stato forte, soprattutto per il vento freddo che impediva ai nostri vestiti di asciugarsi, e con un piccolo zaino da portare sulle spalle non avevamo abbastanza cambi, se le condizioni fossero rimaste tali. L’unica cosa che si può fare in questi momenti è mantenere la calma, fare una preghiera e pensare positivo. 

La mattina dopo – e così per il resto del viaggio – il sole splendeva alto sulle nostre teste.

Scalare il kilimangiaro

I tre giorni seguenti sono stati pressappoco simili: sveglia alle 7, la guida ci consegnava una bacinella d’acqua per sciacquarci il viso e lavarci i denti (tutto il resto del corpo si lavava con le salviette umide), il cuoco ci preparava la colazione, abbondante e sostanziosa per affrontare al meglio la giornata, smontavamo la tenda ed iniziavamo il cammino. Dopo quattro ore circa ci fermavamo per il pranzo e ricominciavamo a camminare fino alle cinque di pomeriggio. Verso le sette di sera si serviva la cena, e qui c’era la parte più bella e romantica del viaggio: cena sotto le stelle, che, data l’altitudine, sono talmente grandi da sembrare delle lampadine. Cenavamo completamente immersi nella natura ed intorno a noi regnava il silenzio più assoluto; eravamo i “padroni” della montagna… solo il ricordo di queste cene varrebbe l’intero viaggio.

Il quarto e il quinto giorno sono i più difficili di tutti. Talmente tosti che anche se ti avvertissero prima non ci crederesti.

Il quarto giorno ti svegli presto e dopo la solita routine, per pranzo arrivi direttamente al campo base del Kilimangiaro (4700mt). Qui incontri tutti gli altri scellerati che hanno deciso di affrontare quest’avventura. Ma il tempo per fare amicizia è poco: alle tre di pomeriggio sei obbligato a riposarti e vieni spedito dritto a dormire. Verso le sette vieni svegliato per cenare e dopo poco devi nuovamente cercare di riaddormentarti, cosa non facile data l’altitudine che ti crea non pochi problemi: incubi, palpitazioni, ansie, vomito e vertigini. A mezzanotte vieni svegliato e dopo un tè e qualche biscotto ti devi preparare per la scalata finale. 

Kilimagiaro - Campo base

Una fila indiana di persone con la torcia in testa inizia a salire, come soldati, degli alti gradoni, il vento è forte e le temperature rigide (circa trenta gradi sotto lo zero). L’aria è talmente rarefatta che ogni passo diventa un’agonia, ti sembra che da un momento all’altro ti si fermi il cuore, la testa ti fa male e il freddo e la stanchezza ti fanno venire il pensiero fisso di voler scendere immediatamente – fosse facile! Le guide ti controllano le pupille ed il polso continuamente, per vedere se sei ancora vigile. Superata la prima ora in cui l’adrenalina ha ancora la meglio nel tuo corpo, inizia la vera prova. Demoralizzato dalla quantità di persone che iniziano ad abbandonare la scalata, inizi anche tu a vacillare e piano piano a lasciarti andare: nel silenzio più assoluto, dove anche pronunciare una sillaba può costarti fatica, oltre ai pensieri e alle voci della tua mente, le uniche parole che senti sono le varie guide che spronano il proprio gruppo a continuare piano piano (“pole pole “) la salita. La testa ti abbandona completamente, cominci a pensare di non potercela fare, inizi a chiederti seriamente “ma chi me lo ha fatto fare?!”. 

kilimangiaro vetta

Io non so ancora come sia riuscita a reggere e ad arrivare alla vetta. Le sette ore di cammino sono state le più dure della mia vita, credo di aver pianto disperatamente per cinque ore di seguito… Ma posso giurare che arrivare su, oltre all’indescrivibile bellezza paesaggistica, è stata la prova più dura e più bella che abbia mai fatto e che probabilmente farò. Quei cinque minuti in cui sei sulla cima ti cambiano la vita e finché non ci vai non puoi immaginarlo. 

Arrivati all’alba (alle sette di mattina circa) dopo pochi minuti a causa del forte vento e del freddo sei costretto a scendere. Affaticato ma felice di essere riuscito in una tale impresa, è talmente grande la soddisfazione che, superando la stanchezza, riesci a tornare al campo base (verso le dieci), dove finalmente (dopo dieci ore) puoi riposare e magiare. Alle tre circa bisognerà infine sgombrare il campo base per lasciare spazio a coloro che dovranno affrontare la scalata la sera seguente, e cominciare la discesa dal monte che durerà altri due giorni.

Questo è un viaggio durissimo, dove non puoi lavarti, dormi in una tenda di mezzo metro quadrato, fa molto freddo, il vento è molto forte, non esistono i bagni, sei fuori dal mondo, non c’è la corrente elettrica, i cellulari non prendono, e qualsiasi cosa ti succeda non c’è modo di scendere repentinamente se non in braccio a un portatore. Per non parlare della mente che ti fa viaggiare lontano e pensare a cose alle quali in mille anni di quotidianità non penseresti mai…

Ma nonostante la fatica, il sudore, le precarie condizioni igieniche, questa esperienza mi ha cambiato la vita e non posso non consigliarlo a ciascuno di voi di farlo once in a life time

Noi abbiamo proseguito con tre giorni di relax sull’isola di Zanzibar, ma tutto il resto è noia.

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California dreaming: da San Francisco a Los Angeles in macchina

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California in macchina

Di Daniel Mazza

Stelle e strisce. Ho sempre avuto un debole per le bandiere e quella degli Stati Uniti d’America diciamo la verità, ha un fascino particolare. Preparo il mio zaino, ho le bandiere di quasi tutti i Paesi visitate cucite sulla superficie. Quella americana è in bella vista, nella parte superiore. Si parte.

Arrivo a San Francisco. La scritta “Welcome to the United States” fa davvero effetto, ti senti un supereroe. Arrivo nel tardo pomeriggio. C’è nebbiolina e un vento freddino. Faccio un giro di sera, mi trovo vicino ad Union Square e proseguo verso la City Hall. È meravigliosamente colorato d’arcobaleno, è di questo colore la mia prima notte americana.

Vado a dormire con una voglia assurda di vedere di più, vedere tutto. Così mi metto all’opera e inizio a mangiarmi completamente la città: vedo le Painted Ladies, le case vittoriane color pastello, poi arrivo fino al Golden Gate. Da vicino toglie completamente il fiato. Attraverso tutta la città, con le sue mille salite e discese, arrivo a Lombard street con le sue curve in super pendenza e poi mi allungo fino al 2640 di Steiner Street. C’è la casa di Mrs Doubtfire, non posso perdermela. Per terra le mille dediche dei fans per il compianto Robin Williams. San Francisco è altissima, tra i suoi mille grattacieli, tra i misteri di Alcatraz che riesco a spiare dal Pier 39, tra uno sbadiglio e l’altro dei suoi leoni marini letteralmente “spiaggiati” in relax a pochi passi dal molo.

San Francisco Civic Center

San Francisco Civic Center

Ma la California è fatta per macinare chilometri e ho deciso che la Highway 1 sarà la mia compagna di avventure per le prossime ore, per il prossimo centinaio di chilometri, o miglia, come dicono qui. Monterey, Carmel e Pebble Peach. Tre stupende cittadine da non perdere, distanti una dall’altra di una manciata di minuti di auto. Ah, l’ex sindaco di Carmel è un certo Eastwood. Fa Clint di nome. La Highway 1 è immensa, ma il suo panorama la rende infinita. Ogni cento metro sei fermo per scattare una foto. Riparti e poi ne scatti un’altra. Così ogni due chilometri. Impossibile non fermarsi ad ammirare il Big Sur. L’Oceano, le coste, il ponte, il vento fra i capelli e poi il nulla più assoluto, ma che in quel momento per te è tutto. Dopo il Big Sur continui, arrivi all’Hearst Castle, a pochi chilometri da San Simeon. Un Castello fiabesco nel bel mezzo della natura. Ci si può arrivare solo con visite guidate e con una navetta appositamente messa a disposizione dai gestori. Chilometri e chilometri di cemento, una striscia gialla, la radio che non prende nemmeno una frequenza. Di fronte a te una strada infinita, al tuo fianco l’immensità dell’Oceano. Ogni tanto c’è una rientranza con qualche macchina parcheggiata. Decine di persone si fermano, scattano foto e sorridono. Poi si rimettono in macchina, ma solo fino alla prossima rientranza. Questa strada, la Highway1, è infinita, ma rendere indimenticabili questi istanti attraverso decine e decine di foto la rende immensa. E ti fa sentire totalmente libero. LIBERO.

Daniel Mazza blogger di MondoAeroporto

Daniel Mazza blogger di MondoAeroporto

Dopo San Simeon si scende sempre di più. Morro Bay, Santa Barbara e Santa Monica le prossime tappe lungo la costa. Ho visto il camion della Coca Cola, quello lungo lungo e colorato di rosso, che si vede solo nelle pubblicità. Ho visto un poliziotto in moto vestito come Poncharello. Ho visto un mezzo inseguimento in autostrada che mi sembrava di essere su DMAX. Sì, sono davvero in America. A Santa Barbara sul Molo trovi il ponte di legno più antico della storia degli Stati Uniti, a Santa Monica invece il Molo è una delle attrazioni principali, proprio lì dove finisce la famigerata Route 66. Santa Monica, il Pier più famoso degli Stati Uniti, con il suo Pacific Park a pochi passi dalle spiagge dove veniva girato Baywatch. Ma di Pamela Anderson nemmeno l’ombra. Sto iniziando ad appassionarmi a tutti questi Pier americani tanto che passo del tempo a fotografare quello di Redondo Beach, coloratissimo, prima di fare una capatina nella frizzantissima Venice Beach, che con i suoi murales e la sua energia non ha da invidiare nulla a nessun altro posto nel mondo!

Santa Monica Pier

Santa Monica Pier

Ancora qualche chilometro e.. “Hey Hey! I’m in LA!” Sono arrivato a Los Angeles. Lo si nota dal traffico, dalle stelle della “Walk of fame” sulla Hollywood Blvd, dalla scritta “Hollywood” che spunta tra gli alberi mentre stai guidando.

Se avete bisogno di qualcosa di più “wild”, spingetevi lungo il deserto. A due ore da LA troverete il Joshua Tree National Park. 80 kilometri di Parco Nazionale immerso nel deserto, 45 gradi, pochissime macchine che hanno incrociato il mio cammino. Il Joshua Tree è stata una tappa stupenda. Camminare per quei sentieri rocciosi con il timore di perdersi nel nulla. Nessun distributore d’acqua, cellulare senza campo. Cartelli di pericolo ovunque e dei panorami che nessuna foto può raccontare. Soltanto te stesso e il sole che picchia forte. E tutto attorno a te un rumorosissimo silenzio. Che spettacolo. A mezzoretta di auto dal Joshua troverete Pioneertown e anche qui, tappa obbligatoria. Ho scoperto una cittadina che vive ancora ai tempi dell’Old Wild West. Fu fondata nel 1946 da alcuni hollywoodiani per creare un set cinematografico per creare delle scene western. E così è rimasta tutt’oggi, nella magia di un film che dura ormai da 70 anni.

California

 

Ho vissuto la California in fretta e furia, in poco più di una settimana, con la macchina a mille, gli occhiali da sole e il gomito sporgente, proprio come i videoclip girati in queste zone insegnano, no?

Io non lo so cosa mi succede quando viaggio. Io non so perché non riesco mai a lasciare un posto senza che mi venga una specie di magone. Perché queste esperienze le vivo con così totale trasporto? Perché ogni città che ho sfiorato la sento già un pochino mia? Ho amato San Francisco, anche con il suo vento gelido della sera e con i suoi sbandati di Union Square. Ho amato i suoi arcobaleni a colorare ovunque la città. Come fai a non amare una città con tutti quei saliscendi, con il Golden Gate, con le Painted Ladies e le curve di Lombard Street? Mi sono perso tra i chilometri infiniti di asfalto che mi hanno portato lungo la costa. La strada era infinita, ma la voglia di fotografare quei paesaggi oceanici la rendeva fantasticamente ancora più eterna. Mi sono affezionato a Santa Barbara, alla sua storia e alle sue Chiese. Sono poi arrivato a Los Angeles e mi sono perso nella sua stravaganza, nonostante l’odio totale per il suo traffico che faceva impazzire anche il mio gps. Mi sono innamorato del mio cognome che magicamente ad ogni check-in di ogni hotel diventava “Moosa”. Avrei voluto passare più tempo al Parco del Joshua Tree e dormire in mezzo al deserto, addormentandomi mentre contavo le stelle. Mi sento fortunato, perché da oggi riempirò quelle pagine del libro della mia vita che erano rimaste ancora bianche, con nuovi ed emozionanti racconti. Punto. A capo, lettera grande. Si inizia un nuovo capitolo.

 

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Slovenia, Idrija tra Mercurio e Merletti

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di Rosalba Grassi

 

Un invito a visitare una miniera o una collezione di merletti, non sembra allettante.

Ti fa pensare di rivivere momenti bui e di respirare odore di naftalina.

Invece quando raggiungi Idrija, una cittadina della Slovenia, in una valle stretta tra le colline, dove si incontrano il mondo prealpino e quello carsico e dove la natura ha il massimo della sua esplosione tra foreste, cascate e il Parco naturale regionale Zgornja Idrijca, proprio là scopri con meraviglia che è tutto intessuto a filo d’argento e filo di lino e in un contesto davvero aderente alla modernità.

Scorre argento vivo nelle vene minerarie sottoterra, su cristalli di cinabro rosso sangue, già da 230milioni di anni fa, in una miniera ormai chiusa e che da giugno 2012 è stata iscritta nell’elenco del Patrimonio Mondiale dell’Unesco, come secondo sito estrattivo al mondo dopo Almadén,  mentre la città a forma di stella dorme su guanciali di pizzo e vive vestita di merletti da oltre 140 anni.

Idrija è una cittadina che si è sviluppata di pari passo agli scavi dei minatori. Più loro scendevano nelle gallerie, fino a crearne 700 km, per una profondità di quasi 380 metri, in 15 differenti livelli, più in superficie si costruivano abitazioni, la chiesa, il granaio, il teatro e addirittura un Castello. E tutto assumeva un aspetto molto femminile, legato al lavoro a tombolo delle donne che collaboravano con i merletti al menage familiare.

Le estrazioni minerarie producevano tonnellate di mercurio, poi esportato in Europa e anche in America ed erano fonte di gran guadagno. Inoltre tutto si poggiava su un Parco Geologico di grande interesse che attirava esploratori, geologi, ingegneri e viaggiatori da tutto il mondo, compresi  alchimisti che introdussero il mercurio nella medicina.

Ed ora tutto questo è rimasto intatto, come in un paese incantato.

Ma che ne dite di iniziare questo viaggio come ho fatto io? Indossiamo insieme una casacca verde e nera e un caschetto ed inoltriamoci intanto nei meandri sotterranei.

Ecco arrivare un alto e snello signore, occhi cerlulei e baffetto brizzolato, sarà il nostro Cicerone del sottosuolo.

Si chiama Joze Pavsic, cammina spedito per i corridoi angusti e scale a chiocciola e tante sdrucciolevoli,  racconta come se l’avesse vissuta  lui la vita là sotto. Ecco, solo dopo un po’ vengo a sapere che infatti Joze ora è una brava guida, in lingua italiana, ma che è uno degli ultimi minatori che si possono incontrare in Galleria Antonijev rov.

Proprio così, ecco perché dà il massimo entusiasmo.

Ci ha anche spiegato che tra loro vigeva una gran dedizione al lavoro in miniera ma anche un forte cameratismo, collante che li portava ad affrontare tutto con il sorriso e a socializzare, piuttosto che riposarsi, quando erano alla luce del sole.

“Ma dopo tanto rumore assordante vissuto qua sotto tra trivelle e martelli pneumatici – dice come chi scherza dicendo la verità – preferivamo andare all’osteria dopo il lavoro, inebriarci un po’, piuttosto che ascoltare anche le voci gracchianti delle nostre mogli”.

Ma ecco si parte, si apre il cancello e, attenzione, all’ingresso c’è un disegno di un martello e scalpello e una scritta in alto sul muro: Srecno.

Significa Buona fortuna, e proprio per questo inizi ad inquietarti mentre ti cimenti nell’avventura. Inizi a seguire dei binari in galleria, gli stessi che servivano a far scorrere i carrelli trasportatori di pietre e metallo. Inizi a sentire quasi i battiti del martello sulla roccia e ti stai per immaginare come sia possibile trascorrere tutta una vita ai lavori forzati e aprendo gli occhi al sole solo al mattino. Ed ecco che il rumore lo senti davvero e ti giri di soprassalto, assieme al rumore ci sono anche loro, i minatori ma non sono in carne ed ossa si tratta solo di una loro bella copia, sono statue di cera, e il rumore dei martelli arriva da un registratore ad evocarne il ricordo.

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Lungo il percorso si raggiunge una cappella sotterranea di s.v.Troijca  dove i minatori andavano a ringraziare Dio per un nuovo giorno di vita.

E stavamo per raggiungere la scala di legno per scendere ai livelli inferiori, quando d’un tratto si stacca la corrente e i pochi spot di luce si spengono completamente.

Ecco che inizia l’avventura del percorso sensoriale, non previsto.

Bisogna stare attenti a dove mettere i piedi ci sono 116 scalini da scendere e salire e le gocce d’argento trasudano e brillano comunque nella roccia nera e stavolta davvero dobbiamo sperare di incontrare Perkmandlc: il leggendario nano dispettoso della miniera, perché ci faccia ritrovare l’uscita. O sarà stato proprio il suo zampino la causa del black out? Fatto sta che non si riesce a intravedere dove è necessario abbassare la testa al passaggio e soprattutto mentre siamo intenti a fotografare anche al buio, spesso sentiamo il tetto di roccia battere sul caschetto.

Ho chiesto alla nostra guida di agitare la sua torcia in modo da creare light painting perché così, con l’obiettivo aperto, si riescono a catturare immagini quasi artistiche in galleria. Ho usato reminiscenze del workshop a Siena che abbiamo organizzato con www.viaggiofotografico.it a I Bottini: gallerie sotterranee costruite nel XIII – XV secolo per l’approvvigionamento idrico.

Quasi quasi lo faccio provocare apposta, questo black out se riusciremo ad andarci il prossimo anno con un gruppo di appassionati fotografi e viaggiatori. Io questo intento lo ripongo nel cuore perché la Slovenia merita un viaggio fotografico, che continui al Castello Gewerkenegg, edificato nel XVI secolo come magazzino di mercurio e di grano e sede amministrativa della miniera. Ma non prima di un pranzetto al Ristorante Barbara, proprio sopra la miniera, dove Matjaz Jelovcan, ti lascia assaggiare i piatti tipici della cucina di Idrija:  a cominciare dal minestrone di cavoli e struccoli: lo smukavc e gli squisiti zlikrofi, tortellini ripieni di patate serviti con bakalca, un condimento con carne ovina.

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Un dolcetto e poi via sotto il sole al Castello decorato che oggi domina il centro storico di Idrija, ma soprattutto domina tutta l’Europa, dato che nel 1997 è stato proclamato il migliore museo europeo del patrimonio tecnico ed industriale.

Meravigliosa è la collezione geologica preservata, ma soprattutto al castello senza merli in testa, c’è il regno del Merletto e il suo Museo Civico interno è un fiore all’occhiello, un eccellente esempio di gestione museale.

Singolare è la Mostra permanente al Gewerkenegg, dal titolo: ‘Il Merletto di Idrija, la storia scritta con il filo’. E’ la manifestazione migliore di come ben si sposa la tradizione del passato, legata alla vita di tante generazioni di merlettaie, mogli e figlie di minatori i cui manufatti hanno abbellito chiese e residenze famose in tutto il mondo, con l’espressione moderna.

Visitare la mostra permanente fa restare di stucco. E con l’interprete Sandra Poljaneci è semplice comprendere il significato di tutte le otto sezioni tematiche. A Idrija c’è una forte sinergia di intenti per la valorizzazione ambientale e culturale, infatti l’allestimento è stato finanziato dal Comune di Idrija, ma anche dal Ministero della Cultura della Repubblica di Slovenia e dall’Unione Europea (Cultura 2000).

E’ uno spettacolo visitare il Castello, raggirarsi tra merletti del 600, raffinati capi di abbigliamento in pizzo appartenenti a donne d’alta classe, fatti secondo la moda della seconda metà del XIX secolo, soffermarsi di fronte alla maestria di chi ha realizzato la tovaglia che era destinata alla moglie di Tito, ma che poi invece è rimasta ad Idrija, per un bisticcio. Scoprire un vero tesoro in bacheca: le trine più antiche, più piccole, più belle da disegni difficili e minuziosi lavori.

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Per chi ama poi l’arte moderna, è una bella soddisfazione scoprire come il Merletto di Idrija stia perdendo il suo ruolo tradizionale con l’uso solo come elemento di decorazione nell’arredamento e nell’ambito ecclesiale, per bordure di cuffie, fazzoletti e tessili da corredo da sposa e sta addirittura prendendo un ruolo determinante nelle opere dei designers pù bravi come astrazione artistica.

Nella ricerca di nuove espressioni del merletto, inoltre, una nuova fase è costituita dalla collaborazione tra la Facoltà di Scienze Naturalidipartimento dei tessili e le Merlettaie di Idrija che ancora oggi vengono formate alla Scuola di merletto. Una grande scuola al centro, frequentata da oltre 400 allievi sia femmine sia maschi che partecipano a i corsi pomeridiani e arrivano alla massima espressione in occasione dell’Evento principale del Festival del merletto di Idrija e cioè la competizione nazionale per bambini ed adulti che si cimentano nella produzione del merletto.

Un Festival ricorrente di giugno, che rappresenta una grossa attrazione turistica e perché no, anche fotografica.

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Rio 2016, luci e ombre della città delle Olimpiadi

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di Erica Valentini

 

È inutile dire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”

Così scriveva Calvino in “Le Città Invisibili”. Zenobia è il nome di un luogo di fantasia, eppure la sua descrizione risuona nella testa mentre si gira per Rio de Janeiro. Si può prendere il sole a Copacabana, ma dando le spalle al mare e puntando lo sguardo oltre la punta del naso, questo si scontrerà con la vista delle baracche, subito dietro ai grattacieli. Si può alloggiare allo Sheraton e notare come l’hotel di lusso faccia ombra sulla favela di Vidigal. In qualsiasi zona della città una quantità di luci pulsanti dagli slum sui colli faranno da sfondo. Dai bus accaldati si possono osservare sfilare tutte le contraddizioni che fanno la Cidade Maravilhosa, per non parlare di quando si esce dalla città: allora si attraversa una periferia lunga lunga, fatta solo di case sgangherate, traffico e grandi centri commerciali.

È una metropoli in cantiere Rio. Ora qui, ora là, ci si imbatte in grandi opere in corso. Proprio come a Zenobia questa trasformazione darà forma ai desideri di alcuni e cancellerà quelli di altri.

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I Mondiali 2014 e le Olimpiadi  di Rio 2016, in quanto grande fonte di finanziamento e di profitto, sono il piede sull’acceleratore di un processo, in atto dagli anni Novanta, che si basa su tre imperativi: competitività, produttività, subordinazione dei fini alla logica di mercato; così, sempre più servizi e aree vengono destinate alle élites che hanno un maggior potere d’acquisto.

Lo dimostra il settore della mobilità urbana, per cui le nuove risorse sono state investite in mezzi di trasporto che collegano le aree già efficienti, e i centri residenziali per ricchi, trascurando completamente la periferia della città, dove vi è una forte concentrazione di abitanti, povertà e scarsità di servizi.

Lo si deduce dalla nuova politica di sicurezza, implementata nelle favelas geograficamente strategiche per lo svolgimento dei giochi olimpici: le cosiddette pacificazioni consistono nell’installazione in pianta stabile dell’Unidade de Policia Pacificadora. Questa dovrebbe agire da “controllore” degli abitanti e operare un contenimento del narcotraffico. Contenimento non significa debellamento, s’intende. L’obiettivo è coprirne le manifestazioni più violente. Così il traffico si sposta nelle zone periferiche, aumentandone il degrado. Non solo: le pacificazioni servono affinché le favelas vengano integrate alla città, attraverso opere pubbliche, infrastrutture, ma soprattutto per mezzo della formalizzazione dell’accesso ai servizi (dall’acqua alla tv). I favelados sono uguali a tutti i cittadini? Che paghino tasse e bollette allora.

Rio de Janeiro

D’altra parte però le riqualificazioni hanno fatto sì che i quartieri centrali registrassero una valorizzazione al di sopra del 300% , favelas limitrofe comprese. Di fronte a un tale innalzamento del costo della vita, gli indigenti – quasi un quarto degli abitanti- si trovano ad un bivio: spostarsi in periferia ( dicesi espulsione bianca) o venir rimossi forzatamente per lasciar spazio ad opere di una contestata pubblica utilità. Quest’ultimo destino ha riguardato circa 13 mila persone secondo i dati del 2014. Intanto la gentrificazione imperversa nelle favelas più gettonate: la classe media compra e affitta immobili, i sushi bar aprono, le gite turistiche per i gringos con i loro selfies tra le baracche e il panorama mozzafiato si moltiplicano,aprono ostelli, gli speculatori speculano, le comunità si disgregano.

È quello che sta accadendo anche nella favela di Cantagalo, stretta nella morsa tra Copacabana e Ipanema. Oltre all’ascensore panoramico che la collega alla metro, la prova più palese del processo in atto è forse data dalla presenza del Gilda, un locale lounge e “non- cheap” come lo descrive il proprietario milanese. D. mi spiega che la sua intenzione è quella di creare un bar per stranieri e classe medio-alta che possano godere “del fattore esperienza”(sorseggiare un cocktail costoso su una terrazza immersa in uno slum), e magari anche speculare sull’immobile, se fosse riuscito ad acquistarlo. “Se tu dessi il diritto di proprietà delle case ai favelados, loro se le venderebbero, arriverebbe la speculazione edilizia, si costruirebbero condomini di lusso, ville, ateliers, ristoranti…”.

È quello che probabilmente sta per accadere: dal 2009 infatti lo Stato ha donato definitivamente il terreno su cui Cantagalo giace ad un’agenzia privata che si occupa di distribuire titoli di proprietà. Uscendo di scena, il potere statale perde la possibilità di attuare un piano abitativo sociale, di agire da fiscalizzatore contro la speculazione immobiliare.

Rio de Janeiro

R., da sempre residente di Cantagalo, racconta: “Spesso gli investitori si presentano a casa di qualcuno con i contanti. Immagina un tipo disoccupato che vede davanti a sé centomila, duecento mila reais… finisce per vendere la casa! Intanto per ognuno che esce, la comunità s’ indebolisce. Da un momento all’altro vedi i tuoi vicini congedarsi. Io dico: genera pure ricchezza per gli altri ma rivendicane una parte! Rifletti bene su quale sia il prezzo da pagare! Puoi perderci la casa e la città! Io non uscirò! Qui abbiamo un senso di famiglia. Contiamo molto sui nostri vicini e parenti. Questa solidarietà è importante!”

S., autoctona della favela mi dice “sono contenta di accogliere persone nuove ma non sopporto quelle benestanti che occupano un posto qua, approfittano delle tasse basse, e non danno nulla indietro alla comunità, non contribuiscono, neanche in progetti sociali”.

Eppure adesso, quelle stesse “persone benestanti” sembrano essere i veri cittadini della città Olimpica. Al resto dei residenti invece, ciò che si sta offrendo non è altro che la negazione del diritto alla città.

 

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Surf in Indonesia tra natura e spiritualità

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di Giorgio Luchetti

L’Indonesia è tutto e niente, è un viaggio introspettivo. L’Indonesia è surf, cultura, natura e spiritualità.

Ho affrontato questo viaggio con la voglia di conoscere, esplorare e fare surf in Indonesia; con me ho portato la mia fedele Nikon FM2 a pellicola, otto rullini, una tavola da surf e i vestiti necessari, tutto nella stessa sacca della tavola. Il viaggio durato 23 giorni si è articolato in 2 isole, prima Giava poi Bali.

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A Giava ho messo da parte il surf e mi sono immerso nelle rovine dei templi di Prambanan e Borobudur, vicino Yogiakarta.

Ho anche vissuto in mezzo ai suoi abitanti: ho preso gli autobus locali, mangiato nelle bettole polverose sul ciglio della strada e sono stato protagonista di decine di selfie, proprio come una star di Hollywood. Quello che lascia un occidentale profondamente perplesso è una contraddizione di fondo: queste persone non hanno nulla, dormono ammassati in una stanza con i  materassi a terra e vivono in condizioni sanitarie opinabili, avvolti in un’aria letteralmente irrespirabile; ma tutti hanno uno smartphone connesso a Facebook e una parabola sul tetto.

In questa prima parte del viaggio ho visitato il complesso di templi Indu di Prambanan.

L’area dove sorgono i templi è molto vasta e si pensa che in origine ve ne fossero 232; nel corso degli anni però, a causa dei terremoti, sono sopravvissuti solo i più grandi ed importanti. Oggi l’area è un immenso giardino verde dove mastodontiche strutture in pietra si slanciano verso il cielo. All’interno delle rovine si intravedono le statue delle divinità a cui sono state dedicate, mentre tutto intorno vi sono le rovine dei templi più piccoli che sono andati perduti; un suggestivo colpo d’occhio dato dalle geometrie delle strutture e la minuziosità della cura del dettaglio.

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Ancor più suggestivo è il tempio di Borobudur, visitandolo all’alba si rimane incantati dall’atmosfera: all’arrivo una nebbia sottile avvolge le 504 statue di Buddha, il sole sorge lento accarezzando lo Stupa e piano piano tutto prende colore, le ombre che diventano sempre più nette delineano forme e volumi difficilmente immaginabili; tutt’intorno e all’orizzonte solo verde e rigogliosa foresta, nelle orecchie solo il canto degli uccelli del mattino.

Quando si arriva, nel buio della notte, non ci si può aspettare l’imponenza e maestosità del sito, un quadrato di 123 metri per 123 metri di base, formato da 10 terrazzamenti concentrici che simboleggiano i 10 passi verso il Nirvana.

Dopo la tappa culturale il viaggio è proseguito verso Bali, l’isola dei contrasti: della ricchezza e della povertà, dell’occidente che si mescola all’oriente, del sacro e del profano, della spiritualità e della speculazione. Si passa dalla pace delle risaie alla frenesia delle serate di Kuta, dagli aperitivi festaioli di Seminiak alla meditazione dei templi Indu, dal surf puro e solitario alle line up gremite di surfer agguerriti. A vegliare su tutto questo ci sono i Balinesi, calmi, sorridenti e indifferenti della frenesia che li circonda; immersi nella loro più completa e profonda fede.

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La mia esperienza sull’isola si potrebbe dividere in due parti con una linea ben definita. All’inizio ho girato come una trottola correndo dietro onde, serate frenetiche e qualche bicchiere di troppo; nella seconda parte ho trovato il nirvana nella penisola del Bukit, immerso nella natura tra le onde più belle del mondo in completa solitudine con il surf. Se all’inizio mi sono sentito un turista medio, dopo sono finalmente riuscito a entrare nello spirito balinese. Nella prima parte della mia sosta a Bali ho alloggiato nei pressi di Jimbaran, spostandomi spesso verso Kuta e Seminiak e rimanendo imbottigliato nel traffico per più di un ora al giorno, ho dovuto anche comprare le mascherine per la bocca in farmacia per quanto mi faceva male la gola dallo smog. In questo periodo ho surfato i reef di Kuta, quali Middles, Arirport e Kuta Reef, onde divertenti ma non speciali come quelle del Bukit; sono stato rapito dalle serate, dagli aperitivi e dalle feste, sono finito più di una volta a Canggu più per le feste che per il surf, anche perchè l’onda morbida è più adatta ai long che alle tavolette. Ho vaghi ricordi di una serata iniziata al Deus di Canggu e finita con Rave party sulla spiaggia, la birra che scorreva a fiumi e le persone di ogni parte del mondo che ballavano rapite dalla musica incalzante; per fortuna in quei giorni non c’è stata swell, le onde non era nulla di che e la vita notturna ha preso il sopravvento sul surf. Quando finalmente mi sono spostato verso Ubud, tra risaie e arte mi sono ripreso dalla frenesia dei giorni passati. Svegliarsi nelle risaie, sentire solo il fruscio del vento tra gli alberi è stata la rigenerazione dello spirito e della mente. Ubud è stato il punto di svolta da cui il viaggio ha preso tutta un’altra piega.

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Dopo Ubud mi sono trasferito a Balangan, in warung di legno e paglia sulla spiaggia. Nel frattempo è entrata la swell, la sera nel letto sentivo il rumore del mare che pompava, era cosi eccitante sentire quel fragore e pensare che da lì a poche ore sarei andato a cavalcare quei mostri, era difficile dormire per l’adrenalina. Lo scenario che mi si presentava davanti ogni giorno era acqua cristallina, onde tubanti lisce di 7-9ft e uno stupendo sole.

Ogni giorno era una nuova sfida, un nuovo confronto con una forza più grande di me: il Mare, croce e delizia di ogni surfer, spirito irrequieto e indomabile, ogni surfer sa quanto sia bello e allo stesso tempo pericoloso ed imprevedibile, ogni surfer lo ama e lo teme allo stesso tempo. Lì ho sentito tutto questo, lì ho trovato la pace con me stesso e con il mondo.

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Ho surfato in tutti gli spot piu famosi della penisola, Balangan, Dremland, Bingin, Padang Padang e Uluwatu. Quest’ultimo è sicuramente il più affascinante, non solo per il particolare accesso al mare fatto di scale scoscese e pertugi nella roccia, piuttosto per l’aria sacra che si respira, come il tempio induista a picco sul mare da cui prende il nome lo spot. Può essere considerato un tempio per i surfisti, anzi il tempio del surf, dove non conta la religione o l’etnia, conta solo l’amore per questo sport e le lunghe e potenti onde capaci di regalare immensa gioia a chi le cavalca, immersi in una cornice naturale unica al mondo. Se non è il paradiso, poco ci manca.

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