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Polonia: un tour a piedi per Cracovia

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Cracovia - Rynek Główny

La storia della Polonia è immensa. Sempre schiacciata dai due paesi confinanti ha dovuto difendere per secoli la propria libertà. Ma nonostante ciò è riuscita a rimettersi in piedi dopo tutti i disastri.
Ho visitato Cracovia come fotografo inviato di The Trip Magazine dopo essere stato selezionato al Casting indetto dall’Ente del Turismo Polacco in Italia.

Appena arrivato in città ho subito notato che al contrario di Varsavia, Cracovia non ha subito danni durante la Seconda Guerra Mondiale e girovagando per le vie della città risaltano all’occhio palazzi antichi, piazze storiche e chiese gotiche.

Il centro è situato sulle rive del fiume Vistola ai piedi della collina di “Wawel”, dove si trova un imponente Castello e la Cattedrale. Cracovia è una città dove storia e cultura si fondono tra le vie del quartiere ebraico Kazimierz che un tempo era la parte principale della città dove ebrei e polacchi vivevano pacificamente fino al rastrellamento degli ebrei da parte dei nazisti.

Il giorno successivo al mio arrivo (l’1 Ottobre) ci siamo spinti a 13km dalla città per visitare le Miniere di Sale (Katarzyna) insieme ad una guida.

Al di sotto della città di Wieliczka abbiamo trovato una delle più antiche miniere di sale funzionanti dal Medioevo. Nel 1978 è stata riconosciuta dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. Il percorso turistico comincia con una discesa di circa (380 gradini) e una volta arrivati si è catapultati in un mondo surreale, totalmente scavato nel sale. Durante il percorso poi, oltre a vedere i diversi macchinari usati, vengono raccontate anche molte curiosità tra cui la leggenda sulla principessa Kinga.

Si racconta che la principessa di Ungheria chiese al padre di regalare alla Nazione una miniera di sale, visto l’enorme valore che questo minerale aveva in quell’epoca. Il Re ungherese acconsentì alla richiesta della figlia, e Kinga gettò il suo anello di fidanzamento all’interno della miniera così una volta arrivata in Polonia indicò ai minatori dove scavare. I minatori scavarono fin quando trovarono un blocco di sale nel quale era custodito l’anello della principessa e da allora Kinga divenne la patrona protettrice dei minatori e a lei è dedicata la bellissima Sala Principale della miniera meglio conosciuta come “Cattedrale di Sale”. Al suo interno si trovano sculture, altari e bassorilievi tutti rigorosamente fatti di sale. La sala che ospita la cappella dove sono conservate le reliquie della “Principessa Santa” si trova a 101 metri sotto terra. Qui viene celebrata la messa e sempre qui hanno luogo diverse cerimonie e concerti (l’acustica della miniera è perfetta).

Wieliczka -Miniera di sale di Wieliczka

Dopo aver visitato le miniere di sale è mi sono spostato nel centro di Cracovia con la mia guida (Monika). Prima tappa la famosissima Basilica di Santa Maria situata nella piazza principale della città. La chiesa è in stile gotico con una bella facciata esterna ma è quando si entra dentro che si rimane a bocca aperta per via dei tantissimi dettagli che compongono l’altare anche lui in stile gotico. Una curiosità di questa chiesa è la leggenda dell’Hejnal.

Cracovia - Cattedrale del Wawel

Si racconta infatti che in una delle due torri ogni ora suona un trombettista delle guardie dei vigili del fuoco a ricordare il richiamo alla gente per l’imminente attacco da parte dei Tartari. Il suono della tromba si interrompe bruscamente, proprio a ricordare che una freccia colpì il trombettista mentre dava l’allarme. Lo squillo di tromba si ripete ogni ora e per ogni lato delle finestre della torre principale da cui è anche possibile osservare la piazza dall’alto e se si è fortunati si può intravedere il vigile che suona la tromba.

Cracovia - Hey Now

Cracovia - Torre del Municipio

Dopo aver visitato la chiesa abbiamo percorso la via Florianska fino ad arrivare ad uno dei resti del sistema difensivo che una volta circondavano la città di Cracovia, dove durante il giorno si trovano anche diversi artisti di strada. Da lì ci siamo spostati nel quartiere universitario dove abbiamo visitato il cortile dell’Università Jagellonica. Molto particolare l’architettura che ricorda uno stile inglese e dove, nelle ore dispari dalle 9:00 alle 17:00, c’è un carillon da cui escono i personaggi più illustri della storia di questa Università.

Cracovia - Florianska

Il 2 Ottobre in programma ci sono state due tappe molto importanti per la storia di Cracovia: Il quartiere Ebraico (Kazimierz) e Nowa Huta. Un giro nel quartiere ebraico è obbligatorio per chi intende visitare questa città e viverla a partire dalla sua tragica storia. Kazimierz si può raggiungere a piedi con una passeggiata di circa 20 minuti dal centro e consiglio proprio di andarci a piedi perché si ha la possibilità di notare un forte contrasto architettonico delle strade, dei negozi e dell’atmosfera un po’ triste e malinconica: andare in questo quartiere è come fare un salto indietro nel tempo.

La visita prosegue verso il ghetto e sebbene sia rimasto ben poco vale la pena fare un salto nella vecchia piazza dove oggi troviamo un’istallazione di sedie che rappresentano come numero simbolico le migliaia di ebrei che furono deportati in massa verso i campi di concentramento.

Dopo aver salutato Monika è giunto il momento di visitare Nowa Huta con Crazy Guides!
Il quartiere di Nowa Huta (la nuova acciaieria) sorse dal nulla su richiesta di Stalin nel 1949. Dalla caduta del comunismo gli impianti sono stati messi sotto accusa per il devastante inquinamento che hanno prodotto.

Il tour del quartiere consiste in una tappa in un bar dell’epoca con il racconto della storia affascinante del quartiere operaio con l’acciaieria della mitica e vecchia Trabant (auto d’epoca comunista per eccellenza).
Da precisare che in questo luogo trovate le uniche ‘Latterie’ di Cracovia autentiche visto che nel centro città sono molto turistiche. Pranziamo in un locale buio, con pochi tavoli e qualche operaio che mangia una semplice zuppa o dei Pierogi. Sembrerebbe una mensa per poveri ma vi assicuro che è un’esperienza che va fatta assolutamente perché è unica.

Il 3 Ottobre, ci siamo spinti oltre le solite mete turistiche di Cracovia. A circa 2 ore di auto abbiamo trovato il Villaggio Zalipie, un luogo genuino nel bel mezzo delle campagne Polacche. In questa località ogni anno le donne dipingono con motivi floreali le loro abitazioni, le chiese e gli oggetti di uso quotidiano. Anche se non è un luogo molto attrezzato per il turismo potrebbe essere proprio questo il suo punto di forza.

Zalipie - Villaggio Dipinto particolare artigiano Zalipie - Villaggio Dipinto particolare Zalipie - Villaggio Dipinto

Una volta visitato il villaggio ci siamo rimessi in viaggio verso Tarnow (la città in cui è stata organizzata la prima deportazione di massa verso Auschwitz, composta da 728 persone). La città è piccola ma ci sono alcune cose che vale la pena visitare come: l’Old Town Hall da dove si può ammirare il panorama sulla piazza principale della città, il Jewish Trail dove sono conservati i resti della vecchia Sinagoga, la Cattedrale di Tarnow e infine i resti del castello posti su una collina.

Tarnow - Museum Old Town Hall

L’ultimo giorno (4 Ottobre), essendo un incallito amante di panorami mi sono diretto verso il Tumulo di Kosciuszko (una tappa fuori dagli schemi turistici). A Cracovia ci sono ben quattro di Tumuli ma questo è quello più alto (ben 36 metri), dalla cui cima si può ammirare tutta la città! Per arrivare su si fa una piacevole passeggiata lungo i fianchi verdi del monumento.

Qui finisce il mio viaggio, un ritorno triste ma con il cuore colmo. Ho camminato per tantissimi chilometri, anche sotto la pioggia, ma ho amato tanto questa città e consiglio a tutti di visitarla almeno una volta nella vita.

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Racconti dalla Mongolia, tra sciamani e cavalli nel deserto

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I km scorrono in fretta quando sei assorto nei tuoi pensieri, distogli lo sguardo e ti ritrovi catapultato per la prima volta nel deserto del Gobi in Mongolia, rapiti ed estasiati da queste distese desertiche immense. I nostri occhi però vengono catturati da un qualcosa d’insolito.

Fermata la macchina, scendiamo e notiamo un groppo di signori intorno ad un semi altare intenti a bere airag, latte fermentato e leggermente alcolico. Stanno aspettando che si compia un evento tanto atteso e propiziatorio: la corsa sui cavalli.

Una ventina di cavalli pronti ad essere cavalcati da un gruppo di bambini entusiasti e gasati di mettersi alla prova. I bambini non hanno più di sette/otto anni e la più piccola ne ha solo tre. Increduli e stupiti di come dei bambini così piccoli possano sostenere una competizione simile.

La corsa a cavallo è un momento importante, una sfida tra ragazzini molto sentita anche dalle famiglie.

Ci piace pensare che per i cavallerizzi non sia solo una specie di competizione ma sia soprattutto un’espressione di pura libertà, più facile da provare correndo senza freni ne limiti in queste distese mongole. Dieci kilometri da percorrere. La corsa sta per iniziare, io salgo sulla fiammeggiante moto e Matteo si accinge a salire sul fuoristrada così da poterli seguire direttamente metro dopo metro su questa polverosa distesa.

Nessuna barriera ne ostacoli, solo questi ragazzini e i loro cavalli uniti, plasmati l’uno con l’altro, un solo essere. Uno di loro prevale sugli altri, li supera tutti, corre veloce come il vento e le moto e i fuoristrada faticano a stargli dietro.

Al loro arrivo il padre di ciascun bambino li attende: traspaiono sentimenti come amore, orgoglio, tenerezza, felicità ma anche ambizione, durezza, severità.

Tutti i sacrifici vengono ricompensati da risate, abbracci, feste improvvisate in direzione di un’altra gher. Chissà quali altre avventure dovranno affrontare questi piccoli e valorosi cavalieri.

Lo sciamano Nergui tra cultura e misticismo

Dopo due ore di cavalcata eccoci arrivati da Lui “Nergui”

Nergui è uno sciamano. Conosciuto tramite la nostra host Tugsu e il nostro prezioso horse-man Uda. Ci introduciamo cautamente e rispettosamente nella sua dimora accolti da una tenera nonnina, sua moglie. Offerto il primo giro di Airag (latte fermentato, salato diluito con il the e leggermente alcolico) ci chiede chi siamo e inizia a prepararsi. Da una logora valigia sfila il vestito e il tamburo, iniziando a picchiettare con una zampa di qualche ignoto animale sopra il tamburo, aumentandone la tensione e fumandosi una sigaretta.

Accelerando e rallentando, il suono si propaga all’interno di questa piccola e angusta casa di legno. E’ avvolgente e surreale, ne siamo talmente rapiti che rimaniamo immobili godendoci un momento unico e irripetibile. E’ sconcertante come una persona a te sconosciuta, grazie a qualche mistica danza e al suono di uno strumento a te così familiare ma suonato con un fare totalmente estraneo riesca a suscitare così tante emozioni da avvertire un’ondata di vibrante energia. Posati gli strumenti e levatosi l’abito, ecco che Nergui si accinge a prendere un ramoscello di ginepro: ci spiega (a parole sue) che dovrà bruciarlo per richiamare gli spiriti e noi lo dobbiamo inspirare per trarne benefici e fortuna per i nostri prossimi tre anni.

Che strano però. Non gli avevamo accennato che saremmo stati così a lungo in viaggio! Magia? Empatia? Coincidenza o semplicemente fortuna? Non lo vogliamo sapere, ci godiamo il momento con lui sorseggiando Vodka e scambiandoci sorrisi e abbracci come se fossimo vecchi amici. E’ proprio vero che questo paese è sinonimo di misticismo e spiritualità. Si possono ritrovare diverse etnie che praticano lo sciamanesimo e credono in tre concetti fondamentali. Il primo è che il mondo è vivo, le piante, gli animali, le rocce e l’acqua hanno degli spiriti e devono essere rispettati, donando quindi protezione ed equilibrio. Il secondo punto è la responsabilità personale. Gli sciamani mongoli credono nel concetto chiamato “bujan” molto vicino al karma. Il terzo concetto è l’equilibrio. Esso è importante per mantenere armonia dentro se stessi, comunità e ambiente.

Tutti principi da rispettare ed onorare se si vuole seguire questo stile di vita o se semplicemente desiderosi di conoscere una situazione a te così differente, estranea, sconosciuta ma altrettanto affascinante e misteriosa.

 

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Brexit: “Gentili viaggiatori favorite il passaporto”

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Il Regno Unito dal 1° febbraio ha ufficialmente lasciato le aule parlamentari di Strasburgo insieme all’Unione Europea. Un addio anche a quell’epoca di peregrinaggi sabatici in stile bohémien per le strade di Camden Town a tempo indefinito, da parte di tanti giovani europei.

Dal 1° gennaio 2021, con la Brexit effettiva, infatti, visto e passaporto saranno indispensabili per poter circolare liberamente nell’isola più grande d’Europa e nella sua sorella minore Irlanda del Nord.

A dir la verità la libera circolazione nel Regno Unito è sempre stata differente rispetto agli altri paesi europei, non avendo mai fatto parte dello Spazio Schengen, zona di transito dove se si è cittadini europei non si è tenuti ad esibire un documento alle frontiere.

In UK, al contrario, è sempre stato d’obbligo esibire la Carta di identità sia in arrivo che in uscita dal Paese, documento che sarà ammissibile in questo periodo di transizione fino alla fine del 2020, quando saranno introdotti visto e passaporto.

Per periodi superiori ai 3 o 6 mesi (ancora non è chiaro) trasferirsi a Londra equivarrà a spostarsi per un lungo periodo in una città come Boston o Dubai, a meno che le trattative con l’Unione Europea non ci riservino ulteriori sorprese.

Un cambiamento che potrebbe avere impatto sul turismo di breve permanenza, come quei week-end da leoni al Fabric prenotati all’ultimo minuto, magari durante una pausa pranzo in ufficio in preda all’isteria dello stress lavorativo. Voci di corridoio garantiscono che ci sarà un sistema rapido ed efficace online come per l’ESTA (solitamente non più di 72 ore per l’approvazione) che per ora attenua le preoccupazioni dei viaggiatori di settore.

Credit photo: Annie Spratt
di Samyra Musleh

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Alla scoperta di una Formentera hippy

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Alla scoperta di una Formentera hippy

Formentera, l’isola più piccola dell’arcipelago delle Baleari, è un luogo ancora vergine dove poter entrare a stretto contatto con la natura e rigenerarsi. Non siete d’accordo? Beh, effettivamente gli ultimi anni l’hanno vista protagonista di rotocalchi e Instagram stories, nei divertenti e discutibili siparietti di volti noti e volti con aspirazione di diventarlo. Ma state tranquilli, esiste ancora una realtà isolana degna erede del passato hippy di questa terra.

Negli anni ‘70, quando nel resto del mondo le sostanze psicotrope prendevano il sopravvento nelle comuni e, in generale, tra le persone alla ricerca di “stati di coscienza alternativi”, un’ondata di giovani figli dei fiori invase pacificamente Formentera. Immaginatevi una terra brulla, una popolazione esigua che si sostentava di agricoltura e pesca e la quasi totale mancanza di energia elettrica… il tutto però, circondato da un mare così cristallino, da far impallidire anche il più remoto e paradisiaco atollo dell’Oceano Pacifico! Questa era Formentera, ed è di questa realtà priva di lustrini e paillettes che vi vogliamo parlare.

Per chi non ci fosse mai stato iniziamo col dire che è una meta molto facile da raggiungere: vi basterà prenotare un volo per la vicina Ibiza (a Formentera non c’è l’aeroporto) e poi recarvi al porto; da qui prenderete uno dei tanti traghetti che effettua la tratta Ibiza-Formentera e, in circa 30 minuti di navigazione, approderete sulla “isla bonita” (così chiamata da tutti i suoi amanti). Ma cosa vedere a Formentera per entrare in contatto con il genius loci dell’isola?

 

cala-embaster

Le spiagge

Nei suoi soli 83 km² di estensione Formentera non ha effettivamente ampi litorali sabbiosi, la sua natura rocciosa la rende aspra in molti punti. Ma di questo suo aspetto “più duro” ve ne parlerò più avanti (le escursioni in barca sono un’ottima alternativa per godersi l’isola da ogni punto di vista). Le zone in assoluto più selvagge ed incontaminate sono a Migjorn: qui troverete sia spiagge affollatissime sia calette riservate dove rifugiarsi dal caos. Ma come capire esattamente dove andare? Il mio consiglio è quello di frequentare il primo tratto di Migjorn, Cà Marì. Questa località, è la prima che si incontra venendo da Sant Ferran. Ad un certo punto, sullo stradone asfaltato che conduce alla Mola, troverete il cartello con la relativa indicazione. Seguite la strada e arriverete diretti al mare. Il tratto di spiaggia in questa zona non è molto ampio ma abbastanza lungo da permettere una buona distanza tra un ombrellone ed un altro. Non aspettatevi però chiringuito, bar o zone attrezzate con lettini ed ombrelloni: qui, anche in alta stagione, potrete trovare il vostro angolo di paradiso ed essere disturbati solo dal rumore del mare… e che mare! Se poi per caso, doveste avere un languorino, l’unica attività presente è il ristorante Sa Platgeta: uno storico locale gestito da spagnoli che propone cucina tipica in un ambiente familiare.

Spostandosi invece più ad est, sempre sulla costa di Migjorn, un’altra zona dove trovare insenature appartate di estrema bellezza, è quella di Es Arenals, precisamente poco prima del bar/ristorante 10.7. Infine, a patto che siate mattinieri, una vera chicca situata alla fine di questo lungo litorale è Calò Des Mort. Come dice giustamente il suo nome, questa caletta, raccolta tra scogliere di colore rosso, è un luogo magico dove la bellezza di Formentera si manifesta con tutta la sua potenza. Andateci presto al mattino prima che si affolli: farete il bagno in una piscina naturale dai colori a dir poco strabilianti. La presenza delle rocce, che non troverete nelle altre spiagge, con la sola eccezione di Cala Saona, regala al mare sfumature inedite. Dall’azzurro più intenso passando per il verde e il celeste, rimarrete sbalorditi dalla bellezza di questo luogo.

Ma Formentera, come anticipato prima, è una terra anche molto rocciosa… viene da sé che grotte e calette, inaccessibili via terra, siano invece visitabili grazie ad un’escursione in barca o in catamarano. Sono numerose infatti le società che effettuano questo tipo di servizi, ne troverete tantissime nella zona del porto. Assaporare l’isola direttamente dal mare, senza il frastuono della gente, ma accompagnati esclusivamente dal vento che scompiglia i capelli, è sicuramente un’esperienza da fare a Formentera.

I fari

I fari sono da sempre simboli emblematici legati alla cultura isolana. Affascinanti e malinconici, a Formentera ne troverete due degni di una sosta. Il primo che vi consiglio vivamente di visitare al tramonto (è orientato a sud-ovest) è il faro di Cap de Barbaria.
Per raggiungerlo dovrete seguire le indicazioni per Cala Saona e poi proseguire verso il faro. Non è possibile arrivarci direttamente in auto o in motorino, ma, la passeggiata “obbligatoria” per arrivare al suo cospetto, fa parte dell’esperienza di questo luogo. Avvicinandovi sempre di più al faro noterete come il terreno si inasprisce e, la natura “dura” dell’isola, si riveli in tutta la sua difformità. Passeggerete su una superficie irregolare, tutt’altro che accogliente; Formentera, quella vera, è sotto ai vostri piedi e davanti ai vostri occhi: l’immensità del mare e la sconvolgente sensazione di libertà vi faranno sentire vivi e vegeti!

L’altro faro, altrettanto suggestivo, è quello che si trova nella località di El Pilar de La Mola. Ci troviamo esattamente nel punto più alto dell’isola tanto che, per raggiungerlo, dovrete percorrere una lunga strada in salita. Noterete come, il cambio di vegetazione, sottolinei la natura polimorfa dell’isola. Non più pianura sabbiosa o aspra roccia, ma aree boschive ricche di pini marittimi e tante altre varietà di arbusti. Fateci caso, perché è uno scorcio dell’isola che in pochi sanno apprezzare.

Una volta arrivati in cima e raggiunta sua maestà il faro, vi sembrerà di essere ai confini del mondo… vi troverete su scogliere alte quasi 200 metri ed una sensazione di spaesamento, mista a libertà, si impadronirà di voi. Prendetevi del tempo per ammirare lo spettacolo della natura; vi potrà sembrare solo acqua e roccia… ma sarà proprio “l’essenziale” di questi due elementi a trasmettervi un’energia indescrivibile.

I mercatini hippy

La tradizione hippy dell’isola vive più che mai nei suoi mercatini artigianali. Li troverete al porto o nella turistica Es Pujols ma, quello più autentico e vibrante, è sicuramente il mercatino che si svolge mercoledì e domenica nel centro abitato di La Mola. Precisamente si sviluppa in una piccola piazza che reca già in sé la sua natura hippy: per terra, al centro dell’area, è infatti rappresentata con un mosaico, una colomba simbolo di libertà e fratellanza.

La bellezza di questo luogo è data anche dagli spettacoli canori che si alternano nella piazza: artisti di ogni sorta e tipo colorano l’atmosfera grazie a musiche e canzoni. Vedrete come, numerose persone, si siedano in circolo per terra, ad ascoltare le varie performance.
Numerosi poi sono gli artisti presenti con le loro bancarelle: troverete abbigliamento, monili, suppellettili per la casa e molto altro. Ma sono veramente hippy gli artigiani che espongono? Su questo non possiamo darvi la certezza ma, se proprio ci dovessimo sbilanciare, citando una persona che vive con uno stile frugale e passa tutto il giorno a creare i suoi oggetti… questo è sicuramente Juan. Dove trovarlo? Non alla Mola. Ma al mercatino serale che si svolge ogni sera, da maggio ad ottobre, sul lungomare di Es Pujols. Lascio a voi l’incognita di scovare o meno questo personaggio, parte integrante della comunità di Formentera.

di Stefano Gualtieri

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Dia de muertos

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“Il culto per la vita, se è davvero profondo e totale, è anche culto per la morte. Le due sono inseparabili. Una civiltà che rifiuta la morte, finisce per negare la vita”. Così scriveva Octavio Paz, tra i maggiori intellettuali messicani della seconda metà del Novecento, ne “Il labirinto della solitudine”, per tentare di descrivere la misteriosa e complessa filosofia del vivere del suo Paese, la cosiddetta mexicanidad, caratterizzata, tra le altre cose, dalla mancanza di una separazione tra la vita e la morte. Senza la morte non ci sarebbe la vita, è una legge di natura. Questo postulato è profondamente radicato nella cultura messicana e ha origini antichissime, diversamente dalla mentalità europea per la quale l’accettazione della morte è un tabù insuperabile.

La sacralizzazione della morte del Messico contemporaneo nascerebbe dalla sovrapposizione del culto azteco del dio e della dea dell’oltretomba, Mictlantecuhtli e Mictecacihuatl, figure umane per metà disincarnate. Le due divinità precolombiane furono assorbite nel corso dei secoli da una nuova immagine sacra la Santa Muerte, la cui venerazione risalirebbe a tre secoli fa anche se è generalmente ritenuto un fenomeno degli ultimi vent’anni. La Santa Muerte o Niña Blanca è rappresentata da uno scheletro che indossa un saio francescano. Il suo principale luogo di culto è divenuto Tepito, uno dei quartieri più pericolosi di Città del Messico e non è un caso.

Raffigurazione Mictlancihuat nel codice Borgia ©WikimediaCommons
Mictlanteuctli raffigurato nel Codice Fejervary-Mayer ©Xjunajpù

Negli ultimi anni la “Madrecita” è diventata anche la protettrice della malavita, motivo di imbarazzo per il governo messicano che fatica a riconoscere ufficialità a questo culto come del resto la Chiesa cattolica che la considera un affronto per le sue origini pagane.

Tale è la dimestichezza dei messicani con la Morte da farla Santa. E questo non costituisce l’unico aspetto straordinario del rapporto del popolo messicano con la morte. Il Messico, come ha più volte sottolineato lo scrittore Pino Cacucci, in virtù della sua pluritrentennale frequentazione di quella terra, “è l’unico posto al mondo in cui si parla di festa dei morti “, una delle giornate più importanti dell’anno per i messicani. Il Día de Muertos, che si festeggia oggi è “un’invenzione meticcia relativamente recente, che riprende alcune tradizioni precolombiane e le fonde con quelle cattoliche”.

Le celebrazioni vanno dalla notte del 31 ottobre a quella del 2 novembre ma sono precedute da un lungo periodo di fervidi preparativi come si usa fare in Europa per il Natale. Ritenuto “una delle espressioni culturali più antiche e di maggiore rilevanza per i gruppi indigeni del Paese”, è stato dichiarato dall’Unesco “Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità”. La mestizia e la sobrietà che caratterizza il giorno della commemorazione dei defunti nel continente europeo e in Nord America, in Messico lascia il posto ad una sorta di variopinto carnevale fatto di danze e sfilate in costume, tappeti di petali arancioni di cempasuchil, il corrispondente del nostro crisantemo, concerti di mariachi dinanzi alle tombe nei cimiteri dove si allestiscono veri e propri banchetti che durano tutta la notte, allietati da fiumi di tequila e mezcal che simboleggiano idealmente un festoso ricongiungimento dei morti con le persone amate.

Secondo la tradizione popolare i defunti tornano dall’aldilà per riunirsi con parenti e amici. In virtù di tale antica credenza i messicani sugli appositi altari del Dia de Muertos preparano per i defunti generose e coloratissime ofrendas (offerte) nelle case, nei locali e nelle piazze principali “in bilico tra il kitsch, il meraviglioso e il sorprendente”. Sugli altari dinanzi alle foto dei morti trionfano le calaveras, dolcetti di cioccolato e teschi di zucchero colorati e l’immancabile pan de muertos, un pane dolce ricoperto di zucchero.

Ogni luogo, pubblico e privato è letteralmente sommerso da teschi e scheletri delle più svariate materie e dimensioni. Protagonista indiscussa è la Catrina di cui esiste anche un corrispettivo maschile, El Catrin, una figura scheletrica vestita di tutto punto, con tanto di cappello alla francese e piume di struzzo, parodia delle signore dell’alta borghesia messicana di primo Novecento. Questo reportage, da cui si evince lo stupore e la curiosità dello sguardo europeo dinanzi ad un evento così straordinario e inconsueto, tenta più che di spiegare di fermare, che è proprio del mezzo fotografico, soprattutto la paradossale vitalità di questo funerale pittoresco. L’ossatura portante è costituita da una serie di ritratti di persone mascherate da morti o travestiti da Catrina, fedelmente ispirati all’immagine resa nota dalle incisioni di José Guadalupe Posada il quale era solito ricordare, in piena consonanza con lo spirito del Dia de Muertos, “un memento mori collettivo e irriverente”, che ricchi o poveri, potenti o oppressi, non siamo che ossa che camminano.

Testo e foto di Filippo Cristallo

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Una Venezia ai confini dell’Asia

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Mario Cimarosti è nato a Puos d’Alpago (BL) e vive a Marcon, in provincia di Venezia. Lavora da oltre vent’anni con Tour Operator come responsabile dell’organizzazione di gruppi estero e accompagnatore turistico. Da dieci anni svolge il ruolo di Responsabile Commerciale del Triveneto per la Columbia Turismo, con sede a Roma. Dal 1994 è casco blu dell’ONU con cui ha partecipato alla Missione Albatros in Mozambico per mantenere la pace nel corridoio di Beira sull’Oceano Indiano. È anche relatore per conferenze di viaggi in diverse città d’Italia.

Con il libro “Ai confini dell’Asia” Ediciclo editore Mario Cimarosti ci racconta un viaggio attraverso 14 fusi orari diversi nelle terre incantevoli lungo la Via della Seta, riscoprendo un angolo della sua Venezia in ognuno dei luoghi visitati.

“Prendendo appunti di viaggio, emozioni quotidiane, incontrando persone di popoli lontani e genti accoglienti ed ospitali, ho raccolto in oltre 20 anni esperienze straordinarie che mi hanno insegnato ad abbattere le barriere dei pregiudizi.

Poi 2 anni fa esattamente a settembre del 2018 ho pensato che fosse giunto il momento di raccogliere in un libro le mie esperienze vissute tra questa gente, per far conoscere a più lettori possibili le meraviglie all’ombra di Zar, Sultani e maioliche, un viaggio inteso, ricco di emozioni e di incontri, un percorso straordinario di 24.441 km.

Mi sono seduto ho chiuso gli occhi ed ho  cominciato un altro viaggio personale, riportando alla luce i ricordi dei volti, le gesta, la vita emozionale tra popoli ricchi di storia, cultura, paesaggi incantevoli attraversati dai più grandi conquistatori di tutti i tempi: da Alessandro Magno a Gengis Khan fino a Tamerlano. Ho trascorso due settimane nel mitico treno lungo la Transiberiana superando i paesaggi bucolici della Siberia, solcando le dune del deserto del Gobi in Mongolia, e ancora dalla muraglia cinese all’esercito di terracotta, attraversando tutta l’Asia Centrale fino a Samarcanda, continuando il mio viaggio nel Caucaso nelle terre dei guerrieri del fuoco in Azerbaijan, in Georgia e in Armenia dove ho condiviso il dolore del popolo armeno e del suo genocidio ed ho scoperto il grande orgoglio di questa gente che si è saputa rialzare.

Il mio viaggio è proseguito ancora fino al Mar Mediterraneo, sfociando nelle acque tra il Mar di Marmara e il Mar Nero lungo il corno d’oro sul Bosforo, visitando e facendomi persuadere dai Palazzi dei Sultani nella storica Costantinopoli, l’attuale Istanbul.
Sono partito dalle mie origini, dall’isola di Murano dove è nato ed ha vissuto mio padre Ernesto (era artista vetraio), ispirandomi al mitico mio conterraneo Marco Polo ho viaggiato per tanti anni nelle Terre d’Oriente.

Tutte le emozioni vissute in queste terre lontane sono fortemente legate alla mia città di mare Venezia: in Russia dove San Pietroburgo è chiamata la “Venezia del Nord”, in Cina a Suzhou villaggio di pescatori oggi soprannominato la “Venezia D’Oriente”, in Azerbaijan dove nella città della seta (a Sheki) ritrovo il vetro di murano nel Palazzo del Gran Khan, in Armenia terra legata ancora oggi a Venezia anche con il Monastero Mechitarista Armeno nell’isola di San Lazzaro e infine in Turchia a Istanbul dove il quartiere Pera si affaccia al Ponte Galata sul Bosforo, un tempo colonia veneziana.

Questo percorso immenso attraverso mezzo pianeta ha riempito la mia anima di viaggiatore, mi ha avvicinato alla meditazione scoperta e osservata in oriente, diventando il viaggio stesso una insperata cura dell’anima, incentivando la mia sete di conoscenza, riempiendo la mia valigia di innumerevoli altri punti di vista”.

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Stromboli: la voce del vulcano

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C’è un’isola perduta, al largo del Tirreno, emersa dal mare e sputata dalla bocca di un vulcano, i cui pennacchi infuocati hanno guidato le rotte dei marinai nelle antiche notti senza stelle: Stromboli. Faro del Mediterraneo, regno di Efesto, qui si approda se il mare lo concede, ascoltando la voce della montagna e lasciandosi traghettare dall’afflato di Eolo. Figlia di Strombolicchio, secondo la leggenda tappo del vulcano lanciato in mezzo al mare durante una violenta esplosione 200 mila anni fa, Stromboli emerge 100 mila anni dopo.

La più orientale e luminosa della costellazione delle sette sorelle isole del vento, le Eolie.Tra le più strampalate fantasticaggini, ne narrava Omero nell’Odissea, la porta degli Inferi dalla quale discese Zarathustra nel pensiero di Nietzsche, la vorticosa via d’uscita dal mondo sotterraneo nel Viaggio al centro della Terra di Jules Verne; appartata e solitaria, la gemma nera del Tirreno è avvolta da mito e leggenda. Il manto, una volta nudo e brullo per la totale assenza di acqua sull’isola, come un miracolo, dischiude alla vista e all’olfatto un tripudio di odori e colori contrastanti, dolci, erotici. Nelle croste aspre della roccia lavica si insinuano macchie di fucsia bouganvillea, essenze di gelsomino e oleandro, capperi e opunzie in fiore, dirompenti fiordalisi, artemisie, distese di ginestre, che nutrite dal calore nella pancia della terra madre, pregna di sali minerali, crescono rigogliose, temprate dai venti di mare.

Dall’alto, Stromboli appare come una trottola di ossidiana di forma trapezoidale alta 920 metri, dal cui cono lavico, a 750 metri, traboccano le sue lingue di lava che discendendo lungo la parete scoscesa della Sciara del Fuoco, cristallizzano, inabissandosi per 2000 metri nel profondo blu. Capovolgendosi a testa in giù, ci si immerge in un altro mondo dove tutto ciò che stava nelle viscere della montagna, assume nuova vita. Dal fuoco all’acqua. Quelle che erano incandescenti rocce magmatiche, ingioiellate di anemoni, spugne, ricci saetta e gorgonie rosso lava, diventano tana di cernie e murene. Le acque limpide e profonde di questo mare custodiscono una biodiversità ricca di vita non ancora depauperata dalla mano dell’uomo che, qui, nutre verso il mare una silenziosa riverenza.

Uomini di mare, i cui volti antichi, scolpiti dai venti, sembrano raccontare storie di sirene e di tritoni. Le case a Stromboli valicano il concetto stesso di casa. Unità, anime, piccoli templi dalle forme cubiche e morbide, essenziali e senza pretesa alcuna nell’urtare l’integrità del paesaggio. Di bianco per combattere la paura del buio, se le guardi bene, mostrano senza imbarazzo la parte più intima di chi le vive.

Come una barca in mezzo al mare, a Stromboli la natura dà il tempo alla vita. Un luogo che non permette nessuna mediazione, dove il corpo subisce la violenza delle pietre così come queste subiscono la violenza di una mareggiata. Un rapporto di intima sensualità tra uomo e natura che, qualora accolto, ti scava, ti plasma dentro e fuori, costringendoti a capovolgere le tue stesse priorità. In questa terra mi sono spogliata per avvicinarmi alla mia autenticità di essere umano. Il respiro del vulcano come respiro di vita, di fronte al quale ne ho percepito la schiacciante prepotenza, la commovente bellezza.

di Sara Coseglia

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Rifugi e bivacchi ai tempi del COVID: le nuove direttive CAI

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Il rifugio d’estate è un luogo per gli escursionisti non solo meta di ristoro e pernottamento, ma è anche uno spazio sociale, spesso incastonato tra vette e panorami mozzafiato, dove socializzare e condividere esperienze e consigli tecnici in montagna.

Per spiegarvelo meglio alla domanda se un rifugio possa classificarsi con lo stesso rating alberghiero, in particolare su “Quante stelle ha un rifugio?” il Rifugio Capanna Piz Fassa ha risposto: “Infinite stelle, quelle del cibo dal sapore inconfondibile che propone, del cielo nelle notti limpide e delle emozioni che regala”.

Un approdo di viaggio, quindi fuori dalle classifiche tradizionali di alloggio.

In tempi di COVID il Club Alpino Italiano ha regolamentato le norme per soggiornare nei rifugi che l’escursionista dovrà seguire:

  1.  Prenota il pernottamento in rifugio, quest’anno è obbligatorio.
  2. Prima di iniziare l’escursione, assicurati di essere in buona salute.
  3. Attendi all’esterno del rifugio le indicazioni del gestore.
  4. Consuma – meteo permettendo – bevande, caffè, torte e pasti veloci all’esterno del rifugio.
  5. Lascia il tuo zaino e la tua attrezzatura tecnica dove appositamente predisposto dal gestore.
  6. Assicurati di avere con te mascherina, guanti e igienizzante a base alcolica; utilizzali quando entri nel rifugio e comunque sempre quando non puoi rispettare la distanza di sicurezza.
  7. Porta con te il tuo sacco lenzuolo o il tuo sacco a pelo per pernottare al rifugio.
  8.  Lavati spesso le mani ed utilizza i tuoi asciugamani personali.
  9. Ricorda che il gestore può sottoporti al controllo della temperatura e che, se superiore a 37,5°c, può vietarti l’ingresso al rifugio.
  10. Riporta i tuoi dispositivi individuali di protezione usati ed i tuoi rifiuti a valle.

Anche se nulla di trascendentale, questo decalogo è importante da seguire nel rispetto di sé stessi, degli altri e dell’ambiente circostante. Purtroppo ci siamo resi conto in prima persona che, soprattutto lungo l’Appennino, molti rifugi hanno scelto di interrompere il pernottamento per il momento, lasciando soltanto la consumazione dei pasti, al fine di riorganizzare l’assetto di hospitality in linea con le nuove norme di sicurezza.

Altro discorso invece è da fare per i bivacchi, strutture gratuite e incustodite a disposizione degli escursionisti, attualmente considerati inagibili dal CAI, in quanto alloggi liberi e non gestiti e collocati in posizioni difficili da raggiungere, che al momento non possono essere sanificati.

Consigliamo quindi a tutti di contattare in anticipo rifugi e bivacchi navigando sull’elenco ufficiale del CAI e su Mountbnb prima di pianificare un’escursione, nell’attesa di tornare a “bivaccare” più rispettosi e consapevoli di prima.

Credit photo: Geran De Klerk
di Samyra Musleh

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Behind the click. Rivoluzione e pandemia a Portland.

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“Ma è tua la foto?”, “Come ti sei trovato lì?”
Mi è stato chiesto troppe volte in questi giorni. Troppe immagini ovunque. Non capisci più chi scatta cosa. Chi scatta dove. Da alcuni mesi sono tornato a vivere negli Stati Uniti. Testimone, mio malgrado, di una pandemia e di una ondata di proteste e manifestazioni senza precedenti. Si pensa ad un nuovo ’68.

George Floyd è morto da pochi giorni. Per dirla correttamente è stato ucciso con una manovra al limite, da un agente della polizia di Minneapolis senza mai aver opposto resistenza. La forza delle immagini di un cellulare si innestano nel contesto di una emergenza pandemica ed innescano un pandemonio. Stati uniti, 2020.

Sto andando alla messa in suo onore in un quartiere a nord di Portland. Non so cosa aspettarmi. Siamo ancora in una realtà ritmata da Covid-19, abbiamo toccato il triste record dei centomila morti, oltre un milione di contagi, 40 milioni di disoccupati. Le strade sono a fuoco in decine di città americane. Questa commemorazione, però, ha i toni di una cerimonia pubblica pacifica.

È il momento giusto per abbracciare la città che mi ha cresciuto a diciassette anni. Sono in macchina con una mia amica americana, prima generazione, di origini messicane. Educatrice, una donna che vede oltre; la ascolto come fossi al primo giorno di scuola, appena trasferito. Mi fa capire subito che la questione non è solo legata a temi razziali radicati nei secoli, ma alla non presa di coscienza dell’uomo bianco e della realtà suprematista che sta creando. Prende fiato, guarda il semaforo, cerca il mio sguardo e mi dichiara come fosse ad una conferenza delle Nazioni Unite, che lei e molti altri nativi, come si definisce, sono e saranno al fianco di questo movimento perché la gente tralascia da troppo tempo un aspetto fondamentale. Mi gela dicendo “l’ America è stata costruita con il lavoro dei neri sul sangue degli indiani”. Ha un tono solenne, guida animata all’ italiana, mano sul cambio automatico. Parcheggia.

Arriviamo al Peninsula Park, uno spazio verde cittadino in un quartiere di cui è rimasta solo memoria dell’ identità black che lo viveva. Gentrificato negli ultimi 15 anni. Polverizzato. È la prima volta, dopo mesi, che inizio a vedere così tante persone tutte insieme. Mi viene automatico mettere la mascherina. Lo noto, mi preoccupa. Troviamo un posto a distanza dove sederci. Mi sembra di capire che sia una organizzazione di giovani, la PNW Youth Liberation Movement, ad aver invitato dei rappresentanti della comunità afroamericana di Portland a parlare. Forse il Movimento è più una piattaforma che vive sui social la sua esistenza liquida. È talmente improvvisata che non c’è un vero palco. Nè delle casse.

Gli USA da anni sono una costante conversazione su identità e generi. Raquel usa parole nuove, è tutto un appunto. Sto indietro, eppure pensavo di stare avanti. Sbotta: “cosa pensi, che noi LatinX restiamo a guardare?” Cado dal pero. “Chi sono i LatinX?” i miei occhi chiedono. Paziente, mi descrive un neologismo di genere neutro, un termine ombrello per definire i Latinos americani, che vivono negli Stati Uniti, egli, ella e loro. Mi punta, sguardo determinato: “È naturale che siamo al fianco di questa protesta. Perchè tieni a mente, prima di All lives matters, dobbiamo ricordare al mondo che BLACK lives matter first! Solo dopo ne faremo una questione BIPOC”, aggiunge.

BIPOC (Black, Indigenous, People of Color) è un acronimo che ho ascoltato spesso negli ultimi mesi. È un termine coniato per creare solidarietà tra le persone di colore; sottolinea intenzionalmente che non tutte le people of color si confrontano con lo stesso livello di ingiustizia. E vuole estendere il significato dell’unione POC. La questione linguistica si fa violenta anche lei. Istitutional and systemic racism. Questo è stato verbalizzato al tavolo della conversazione. Ripetuto sino allo sfinimento, spesso affiancato a racial inequality and police brutality. Con le parole si dà vita a nuovi mondi: disenfranchisment è uno di questi. Espropriare il senso di appartenenza e negare il diritto di voto.

La questione è complessa e delicata, questo non significa che vada rimandata. Forse tra le prime azioni, bisognerebbe ripartire dall’educazione dei bambini. A scuola e a casa. Avviare un dialogo interno con noi stessi. Portare consapevolezza, partendo dal basso dei tuoi figli. Questo non è un problema solo americano. Per quanto impreparati possiamo sentirci, prendiamo atto del razzismo che intesse le immagini del mondo che viviamo. È un problema umano. Va risolto ora, sfruttando le accelerazioni della storia.

Sono irrequieto. Iniziano a parlare con un debole megafono da quello che non è un palco, arriva sempre più gente che si siede distanziandosi vicina. È fortunatamente una giornata di primavera, in questa che è una delle città più piovose d’ America. Mi alzo, mi prudono le mani di creatività. Voglio scattare in giro. L’ho sempre fatto. Non mi sento fuori luogo perché sono arrivato da poco. L’energia è palpabile.“Black is Magic. Black is Magic” la folla intona.

Spunta una bandiera enorme della Palestina. Sembra stonare sullo schermo delle mie convinzioni. Lascio sfocare l’immagine in sottofondo. L’atmosfera si riscalda, il microfono è in mano a carismatici oratori vestiti da battaglia. È come soffiare su un falò energetico. Mi avvicino sempre più verso il cuore della fiamma. Una moltitudine di persone davanti a me. Un prato di americani bianchi che ha sentito il richiamo all’elaborazione del lutto. Portland, una delle città più progressiste d’ America è anche la più caucasica, parola di censimento. In molti hanno portato il loro mini striscione portatile. L’individualismo di questo paese lo vedi anche alle manifestazioni dove ognuno, educato, vuole dire la sua. Un mare bianco, che agita scritte nere. Nessuno fuma nulla. Il ronzio di un elicottero sopra le nostre teste. Contegno, cordoglio, rabbia e pandemia tutto intorno.

R.I.P. Rest In Power dice l’epitaffio vicino ai fiori. Sento una forza magnetica che mi vuole trascinare lì su. Entrare nello sguardo. Vivere il loro punto di vista. Provare dolore. Decolonizing identity. Liberarsi dal peso dei propri oppressori. La Palestina. Tutto torna. Gli odori del mercato di Hebron. Rompere la logica del palco. Sovvertire la prospettiva. Salgo di lato. Occhi a cinepresa. Loro consapevoli. Incazzati. Esasperati. Ancora fiduciosi. Colui che parla fa cenno di inchinarsi. Pugno al cielo, scandisce con voce potente “Black Power”. Insiste, sempre più forte. La folla in ginocchio tira fuori tutta la rabbia: “Black Power!”. La pezza davanti la bocca che mi rende invisibile. Mi faccio spazio, nessuno pensa che io sia fuori luogo, me lo sento. Tutti servizio d’ordine di loro stessi. Sono stordito dalla mia presenza in questo fotogramma di storia. Loro diventiamo noi. “Black Power! Black Power!”. Memorie visive di Genova G8 e Praga IMF. Prendo una grande boccata di anidride carbonica dalla mascherina, in apnea, energie di consapevolezza, l’oratore passa il megafono ad una ragazza. Schiarisce la voce: “Equality, not revenge!” irrompe. Ho l’ America davanti agli occhi. “Lò, non hai colore, sei iper-visibile, scatta!”. La Storia è dappertutto. Prendo fiato. Obiettivo mai obiettivo in mano.

CLICK!
Portland June 2020

di Lorenzo Fresh

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Filippine mon amour. Baia di Bacuit.

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Ottenuto il visto per l’ Australia rimaneva solo una cosa da fare, biglietto!

cane media in taglia in acqua cristallina nelle filippine

Tariffa molto conveniente: Roma/Melbourne con scalo a Doha e Manila, un’ idea che mi sorprende. E se mi fermassi qualche giorno nelle Filippine invece di farci solo scalo? L’idea prende forma ma geograficamente il paese non mi aiuta, più osservavo la carta e più mi rendevo conto che è formato da 7000 isole, dunque, quale scegliere ?

Zingarate mi viene in aiuto, “Palawan isola più bella del mondo”. scogliera scoscesa in acqua cristallina vista da imbarcazione nelle filippineLa meta è decisa, ma raggiungerla era leggermente più complicato. 17 ore di volo per raggiungere Manila con scalo a Jeddah, una notte a Manila, un volo interno per Puerto Princesa ed eccomi a destinazione. Ah dimenticavo, per raggiungere la mia destinazione El nido ci sono volute altre 6 ore di macchina dall’aeroporto. Cerco un van che faccia la tratta, pago per il mio posto e subito traggo la mia prima considerazione sui Filippini, l’unica negativa, ogni filippino diventa pazzo se ha a che fare con un volante, e il nostro driver era il più pazzo di tutti. Viaggio allucinante, velocità folle per quelle stradine in costruzione, uso spasmodico del clacson per enfatizzare ogni azione del nostro Senna asiatico ma nonostante tutto, un senso di sicurezza mi pervade. Mi rilasso e inizio a godermi il viaggio, ma chi parte con solo uno zaino a spalla in fondo cerca questo no?

panorama spiaggia e vegetazione acqua cristallina nelle filippineDopo più di 5 ore sono a El Nido, il mare non si vede quasi mai lungo il percorso ma una volta arrivati nella baia di Bacuit ti si schiude letteralmente davanti, ti abbraccia, ti chiedi se non sia nato proprio lì il mare. Trovo il mio ostello, lascio lo zaino ed è quasi sera, trovo la forza per dirigermi in spiaggia ed è subito pace. Seduto ad un tavolo con i piedi sulla sabbia bevo birra e mangio il pesce più fresco che riesco ad immaginare a soli 8 euro.
La mattina mi sveglio di buon ora e parto per uno dei 4 tour che ci vengono offerti, A B C D, scelgo il primo. Tutti i tour partono dalla spiaggia di El Nido, si sale sulle tipiche imbarcazioni palawanensi che sembrano libellule adagiate sull’acqua e inizia la meraviglia. Small lagoon, Big lagoon, Shimizu island, è tutto un rincorrersi di aspettative superate, paesaggi primordiali, ricordi inconsci e scintille naturali.

Sulla barca con me ci sono un gruppo di amici californiani, facciamo amicizia e mi invitano a passare la serata con loro, accetto. Mi trovo a pensare a tutte le paure che mi avevano assalito per questo primo viaggio in solitaria, ma ora mi sembra la miglior scelta che abbia mai fatto, non si è mai aperti mentalmente e liberi da responsabilità come quando si è da soli.

tramonto sul mare rosa, baia di bacuit filippinePer arrivare al locale dell’appuntamento prendo il tipico taxi dell’isola, il tricycle, sono dappertutto, sono rumorosi, lenti, ci monti sopra e realizzi di essere dall’ altra parte del mondo, sono il massimo. Il locale si chiama Panorama ed è meraviglioso: una terrazza sulla baia, lucciole appese a mezz’aria, camicie di lino, piedi nudi, alcool e atmosfera, poi pochi ricordi confusi ma tutti dolci.panorama mare e monti, baia di Bacuit, Filippine

La mattina dopo si va a fare colazione in un locale conosciuto in zona chiamato Tambok’ s, scegliamo cucina tipica e ci portano riso e uova con maiale caramellato, dopo questo sono pronto ad affrontare qualsiasi giornata. Mi incontro con una ragazza conosciuta la sera prima, affittiamo uno scooter e raggiungiamo Nacpan beach. Poco fuori da El Nido è un paradiso per chi ha solo bisogno di relax. Acqua cristallina, sabbia così fina da sembrare sale, pescatori antichi e luci al tramonto così vive da trasformare in enormi tartarughe marine a pelo d’acqua due piccoli isolotti non lontani dalla riva.

imbarcazione filippina su mare cristallino, baia di bacuitLa vacanza sta per finire ma ho ancora tempo per un secondo tour, il C comprendente Helicopter island, Secret Beach, Hidden beach, non sto neanche a dilungarmi in ulteriori descrizioni perché c’è ancora tempo per un’ultima notte. Notte passata tra karaoke discutibili, bagni in mari proibiti, chiasso notturno e frastornante che scema proporzionalmente con lo schiarirsi del cielo, raggiungendo la sua completa assenza nello schiudersi della prima alba esotica che io abbia mai visto.

 

testo e foto di Nazzareno Consalvi
Foto copertina di ©Charles Deluvio

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Orta San Giulio, un gioiello sul lago nel Novarese

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Un borgo completamente in pietra. Pietra che compone le strade, pietra che copre lepie case, pietra che riempie i muri. Pietra incisa, con graffiti millenari dalle forme più varie (alberiformi, geometrici, antropomorfi). Pietra incisa con nomi, storie, professioni. Pietra che rimanda a leggende, pietra che parla della quotidianità degli abitanti. E’ proprio così che il borgo di Orta San Giulio appare a prima vista, sia che lo si raggiunga dal lago che lo si raggiunga da terra, ma anche che lo si veda dall’alto.

Un borgo di circa mille abitanti che racchiude storia, arte, spiritualità e tante curiosità letterarie e cinematografiche. Orta San Giulio si sviluppa tra gli stretti vicoli, aprendosi nel bel giardino all’italiana del palazzo municipale, nella celebre Piazza Motta all’ombra del “Palazzotto” e sulla salita della Motta, vegliata dalla chiesa parrocchiale.

Ma Orta ha anche due propagini cariche di significato. In qualche minuto di navigazione dalla piazza si raggiunge l’Isola di San Giulio, dominata dall’attuale Monastero Benedettino di clausura (che ospita circa 70 monache) e che custodisce una delle basiliche romaniche più importanti del Piemonte, la Basilica di San Giulio. Qui tra affreschi di epoche diverse, sculture romaniche preziosissime e resti della prima chiesa paleocristiana, si arriva al cospetto della tomba di San Giulio, evangelizzatore del territorio nel IV secolo.

In qualche decina di minuti a piedi dalla chiesa parrocchiale, invece, si sale al Sacro Monte (Patrimonio Unesco insieme agli altri 8 Sacri Monti di Piemonte e Lombardia): qui in 21 cappelle si racconta la storia di San Francesco d’Assisi con affreschi e statue di terracotta a misura reale. E’ questo uno dei punti privilegiati per osservare l’isola, insieme al Santuario della Madonna del Sasso, che si trova sulla sponda opposta del lago.

Dalla piazza centrale, affacciata sul porticciolo e sull’isola, si respira un’atmosfera antica. Il “Palazzotto” (o Palazzo della Comunità della Riviera di San Giulio) di fine Cinquecento presenta ancora gli stemmi dei vescovi proprietari del territorio: spicca tra questi lo stemma dei milanesi Visconti, raffigurato con il serpente che tiene in bocca una figura umana e depositario di storia e leggenda attorno a una delle famiglie lombarde più famose. Il simbolo del borgo, l’Hortus Conclusus, da cui proviene il nome Orta e che rimanda simbolicamente all’idea medievale di “giardino dello spirito”, si affianca invece a quello della Giustizia con due angeli muniti di spada e bilancia. Chiudendo gli occhi, si possono ancora sentire le voci di tutti i rappresentanti dei borghi della Riviera, di proprietà del vescovo, che si riunivano ogni mercoledì nel Palazzotto. E ogni mercoledì, ancora oggi, la piazza è luogo di mercato proprio intorno ai suoi portici, che già avevano in antico questa funzione.

La discesa dalla chiesa parrocchiale (bell’esempio di Barocchetto, ma sorta su una precedente chiesa medievale) conduce alla piazza tra palazzi nobiliari di prestigio. Se la facciata di Palazzo Gemelli vanta la decorazione dei Fiammenghini, il palazzo custodisce l’esempio più straordinario di giardino all’italiana del Cusio. Dal lato opposto della strada e voluto in origine dalla stessa famiglia Gemelli, Palazzo Penotti Ubertini è oggi location per eventi culturali e privati e fa da scenografica cornice a questa porzione del centro. Ma a suscitare sempre grande curiosità è la cosiddetta “Casa dei Nani” (Casa Marangoni, la casa più antica di Orta), così chiamata per le dimensioni ridotte delle finestre, che ancora si appoggiano sopra all’antico architrave in legno tra delicati affreschi a tema mariano.

Un gioiello, il borgo di Orta, che ha fatto da sfondo nell’Ottocento alle vicende amorose non corrisposte del giovane Friedrich Nietzsche, che soggiornò al tuttora esistente albergo Leon d’Oro. O alla fuga d’amore del giornalista e romanziere Honoré de Balzac con l’amante. Ma anche, più recentemente, a libri, racconti e filastrocche di Gianni Rodari (nato 100 anni fa sul Lago d’Orta, a Omegna, e che ambienta a Orta e sull’isola il suo ultimo libro “C’era due volte il barone Lamberto”) o alle storie di Laura Pariani. Orta compare anche in diverse pellicole della commedia all’italiana, in numerose fiction e in film d’autore come “La corrispondenza” di Giuseppe Tornatore.

Così l’attore tedesco Carl Heinz Schroth, la cui statua in veste di pittore abbellisce il giardino del palazzo comunale, vedeva Orta e il suo lago: “il più bel posto del mondo”, un gioiello, un’opera d’arte. E così la vediamo noi oggi.

Giulia Varetti
guida turistica, archeologa e giornalista
Camillo Balossini – Fotografia Storica

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Eco vacanze e alloggi sostenibili in Italia ai tempi del Covid

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L’impronta ecologica è un indicatore complesso utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della terra di rigenerarle. Approvvigionamento idrico, consumo di elettricità, anche una semplice passeggiata in montagna lascia le sue tracce indelebili e muta per sempre un assetto ecologico a svantaggio dell’ambiente. Un’approccio diverso è possibile così come riflettere sulle nostre scelte turistiche dall’alloggio in una struttura che rispetti i canoni della bioedilizia ai campeggi che si avvalgono di pannelli solari termici per l’acqua calda.

Ecco la nostra selezione di posti eco-friendly dove abbiamo personalmente alloggiato in Italia.

Trentino – Camping SASS Dlacia

A 1680 mt di altezza, il Camping SASS Dlacia è tra i campeggi più alti d’Europa. Questo angolo di paradiso si trova alle pendici delle Dolomiti dell’Alta Badia in Trentino,

Uties sotto un cielo stellato
Uties. Foto @Camping Sass Dlacia

all’entrata del Parco naturale di Fanes-Sennes-Braies. Tra le soluzioni più economiche e green, sempre che non soffriate di claustrofobia, si può alloggiare nelle Uties, mini chalet amovibili alternativi alla tenda, essenziali e caratteristiche, con all’interno un piccolo angolo cottura e, in quelle più ampie, anche un lavandino. Le strutture in legno all’interno che fungono da tavolo si possono tramutare in letti con materassino annesso. (ricordatevi di portarvi il cuscino però). Calde di notte e fresche d’estate, questi piccoli rifugi possono diventare, anche durante una giornata di pioggia con un buon calice di vino altoatesino, un’esperienza esclusiva e molto romantica…

Da qualche anno il SASS Dlacia ha nominato anche un responsabile alla sostenibilità ambientale per la standardizzazione di alcuni processi di consumo, smaltimento e per fornire anche ai viaggiatori competenze di educazione e tutela ambientale .

Un luogo davvero magico da cui partono i più bei sentieri della zona, da quello più impervio verso il Lago Lagazuoi passando per il rifugio Scotoni, ai più tranquilli sentieri boschivi verso la Malga Valparola, tipica baita d’altura dove assaggiare prodotti locali e comprare formaggio d’alpeggio, rigorosamente prodotto da ovini e bovini allo stato brado.

Campania – Cilento – Campeggio Il volo della rondine

Il Volo della Rondine è un’associazione culturale che si trova nel basso Cilento, precisamente su un arenile del Golfo di Palinuro. Qui si soggiorna con un approccio olistico e più slow. Si dimora in bungalow e tende attrezzate o proprie e con la tessera associativa si può partecipare ad escursioni o attività come lo yoga, il teatro e i laboratori di artigianato per bambini.

barchetta su baia con acqua cristallina
Capo Palinuro.

Ma la particolarità di questo luogo è certamente il cibo e l’approccio ad esso. Si prenota solo a settimane e si può scegliere tra pensione completa o mezza pensione, ma non si può solo pernottare. Fondata dagli chef della scuola eno-gastronomica “La Sana Gola di Milano”, la cucina del Volo della Rondine è un viaggio esperienziale che coniuga sapore e salute. Prevalentemente vegana e macrobiotica, propone anche dell’ottimo pescato locale proveniente da attività sostenibili, offrendo una varietà di portate realizzate con materie prime stagionali e km 0. Ed esclusione della colazione, i pasti sono serviti rigorosamente alla stessa ora nella struttura centrale, che in questo particolare anno si è adeguata alle nuove misure di sicurezza per il Covid19 limitando l’accesso davvero ai pochi eletti che faranno in tempo a prenotare.

Umbria – Lago Trasimeno – Fattoria il Poggio Isola Polvese

Volete visitare un luogo davvero fuori da qualsiasi rotta turistica? L’isola Polvese è la seconda isola lacustre per ampiezza del lago Trasimeno (in tutto sono tre).

isola lacustre, isola Polvese
Isola Polvese vista dal battello. @Samyra Musleh

Un luogo incantevole e disabitato dove si ha davvero la sensazione di vivere alla Robinson Crusoe; questo è un polo di educazione ambientale dove fare attività come bird watching, pesca tradizionale, canoa ed escursioni notturne tra antichi monasteri e boschi incantati. Per trascorrere la notte qui si può soggiornare presso la Fattoria il Poggio, tra le prime strutture ricettive ecocompatibili in Italia, che vi accoglierà in un complesso dotato di avanzati sistemi di fitodepurazione, risparmio energetico per mezzo di pannelli solari, ricircolo dell’acqua piovana e separazione e compostaggio dei rifiuti. L’Isola Polvese si trova nel comune di Castiglione del Lago, ma l’imbarco per l’isola è da San Feliciano nel comune di Magione, attivo tutti i giorni dalle 9:00 alle 19:00. Le auto non traghettano ma possono usufruire di un ampio parcheggio gratuito a fianco del molo d’imbarco.

Toscana – Agriturismo biologico Sant’Egle

Per la fascia eco-luxury non possiamo non citare l’Agriturismo biologico Sant’Egle inToscana. L’agriturismo si trova a Sorano nella Maremma Toscana, nei pressi del Parco Archeologico del Tufo e delle vie Cave.

Vie cave
Vie Cave, Parco Archeologico Città del Tufo @Cristiano Pelagracci

È un agriturismo biologico a impatto zero, vincitore di numerosi premi Green trai quali, quello del miglior agriturismo in Italia per sostenibilità e conservazione di biodiversità conferito dal WWF. Tutti i prodotti sono vegani, senza glutine e cruelty free. La struttura è alimentata solo da energie rinnovabili e le camere hanno ambientazioni realizzate con artefatti comunicativi esposti a rotazione da artisti provenienti da tutto il mondo. Uno spazio olistico per praticare un po’ di yoga vista tramonto e una biopiscina per le calde giornate d’estate sono solo alcune delle esperienze esclusive offerte dalla struttura.

Sicilia – Azienda Agricola Nuvolive

Yurta illuminata
Yurta. @Glamping Nuvolive

Nota come la Valle degli Ulivi e dei Templi, Catelvetrano nell’entroterra occidentale Siciliano è un ottimo pit-stop a solo un quarto d’ora della costa, dove trovare un alloggio economico ed eco-friendly tra gli uliveti secolari. L’ Azienda Agricola Nuvolive con la sua formula Glamping offre delle Yurte attrezzate con piccoli bagni privati adiacenti. Una vera evasione a stretto contatto con la natura dove godere di cene con prodotti biologici e pescato locale sotto le stelle, per ricordare l’antica Sicilia coloniale, posizionato proprio lungo la rotta ellenica verso le cave di Cusa da dove venivano estratti i rocchi, utilizzati per realizzare le colonne dei templi di Selinunte.

di Samyra Musleh
Foto copertina di Samuele Errico Piccarini, Lago di Braies

 

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Protetto: La grande fuga verde

Saudade

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L’odore del caffè mi ha raggiunto sino ai piedi del letto alle prime luci, ha intriso la coperta calda di sogni, mi ha dato il buongiorno svegliandomi. L’aroma fresco e pungente, droga per i sensi, svuotato di realtà, mi sono ritrovato al tavolino del bar di Lisbona dove Fernando Pessoa trascorreva le sue mattine. Poi, scritta l’ennesima lettera, sono sceso dal miradouro de Santa Luiza e mi sono incamminato verso Belém, confortato dalla luce riflessa delle onde di un Tago nostalgico, note colorate di saudade amica.

Il Cristo re brillava al di là del fiume e benediceva le vite, ferite di questa gente appuntita, dalla lingua veloce. Ho preso un tram, come il poeta sono andato a trovare i pescatori dell’Alfama, ho riso con loro, gesti decisi consumati dal mestiere. Di nuovo in cammino in questa città che stringo al petto come una fotografia dai contorni sbiaditi che racconta di tempi lontani. Ho comprato un giornale lungo il marciapiede all’angolo da un ragazzino dal viso stretto simpatico, ho fatto i complimenti ad una meravigliosa lusitana, accennando un portoghese zoppicante, imbevuto di azzardi linguistici.

Mi sono ritrovato al Barrio Alto, ripulito dalla notte di festa, i cani fuggivano da un muro all’altro, arcobaleno di odori per il loro fiuto, camerieri stanchi dei resti di follia che hanno macchiato vetri e tavolini. A riportarmi in vita un vecchio signore con un buffo cappello che sorseggiava il suo caffè. Ecco, sento di nuovo l’aroma carezzarmi il volto e a farmi alzare. Passi lenti da gigante, allungo i muscoli e oltre la libreria scorgo il cofanetto dove conservo all’asciutto i miei sigari, le copie dei dischi registrati e dei libri scritti che tengo come archivio personale. Ah che voglia di un sigaro all’alba al mare d’estate, passeggiando distratto, inventando l’ennesimo personaggio.

centro lisbona

Si dissolve la densa nebbia dagli occhi e suona la sirena di un nuovo giorno. Apro così “Viaggi e altri viaggi” di Antonio Tabucchi: ritrovo la lettura sospesa proprio mentre l’autore si muove nella sua Lisbona, nella Lisbona di Fernando Pessoa, nella Lisbona di tutti i Fernando Pessoa. Per Tabucchi il poeta portoghese è un faro, guida, passi da seguire perché conducono alla verità ricercata, rapito dall’essenza lusitana, una verità trovata tra i caffè letterari della capitale, il Tago e gli azulejos del miradouro. Una verità dipinta di saudade, sentimento nascosto, enigma, riflesso dell’anima, inclinazione e disposizione a uscire da sé stessi per rientrarci, esperienza sensoriale, distillato di luce al tramonto e futuro soffocato, momenti unici dei quali sappiamo che non rivedremo la forma, consapevoli di aver toccato la bellezza, una ferita che fa male ma che viene dalla meraviglia.

Non la si può spiegare la saudade, non è nostalgia e basta, dentro di sé ospita la solitudine, da cui viene il nome, c’è malinconia certamente; non c’è solo il passato, ecco spuntare il futuro. È quella nostalgia per qualcosa che vorremmo si realizzasse o quel sentimento che ci fa “mancare” il momento che stiamo vivendo proprio nel momento in cui lo stiamo vivendo. Ecco la saudade.

Lisbona piazza

Anch’io come Tabucchi ho contemplato la nebbia illuminata dei lampioni che danno sul Tago; mi trovavo sempre a Belém, anni fa, con Giovanni e Marino, fedeli compagni di viaggio al mio fianco. In quel momento però ero solo, perché la saudade è un soffio solitario, è un passo nel vuoto, è una mano tesa verso di noi che ci invita a cogliere il fragile, il passeggero, la bellezza in transito, il dettaglio e l’amarezza, dolore e potenza, farli nostri in un istante. Su quella panchina che non concedeva molto alla vista la saudade era la luce debole sulle case, angolo soffuso dell’anima, periferia di un sentimento talvolta stanco, assopito, defilato.

Saudade dialogo intimo, voce che sussurra dolcezze andate, rimpianto per non goderne nel futuro, è una croce da portare, specchio inevitabile dell’incertezza che l’oceano urla dal cuore del mondo. Da quel punto mai dicibile, dall’ignoto più profondo che si concede ferendoci lo spirito, dicendo che a volte non c’è risposta al mondo, che siamo tessere di un mosaico, bagagli in bilico sul precipizio a cui è concesso il sentimento, la percezione, l’intuizione, l’amore e niente più.

panorama vista tetti LisbonaForse la saudade è il migliore dei sentimenti che l’uomo può provare, o forse no, è solo un macigno in più su queste sabbie mobili che ci affogano e dalle quali dobbiamo salvarci. La saudade non ha risposta, esiste e ci dobbiamo fare i conti. Nessun giudice, nessun valore, esiste e non infrange nessuna regola. Non è per tutti, non tutti ne fanno esperienza ma questo è normale, come ogni cosa. Tutti però possono provarla, a patto che si abbandoni qualsiasi peso o zavorra, che si esca da sé, come nel vero viaggio, direbbe Franco Riva, troncando ogni ponte che ci riporta a casa, costruendone altri per proseguire, trovando un nuovo cammino per poi rientrare. Saudade impossibile, eterna, straziante e meravigliosa.

di Lorenzo Cittadini
linguista e scrittore

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Ussita monti Sibillini. Deviazioni inedite raccontate dagli abitanti.

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Ussita, Monti Sibillini, provincia di Macerata, un Comune marchigiano di circa 390 abitanti che fa parte di quei centoquaranta violati dai grandi eventi sismici del 2016 e 2017, che hanno investito il centro Italia.

Ussita però pur sofferente e stigmatizzata ne ha costruito un suo tratto identitario e con il libro “Ussita monti Sibillini. Deviazioni inedite raccontate dagli abitanti” si racconta attraverso le voci e le immagini di scrittori, come Wu Ming 2, storici, fotografi e abitanti del luogo per accompagnare i suoi visitatori “nonturisti” lungo itinerari e sentieri inscritti nelle storie del passato e nelle sfide del presente.

copertina libro con mezzo lupo mezzo agnelloCon due percorsi narrativi questa guida curata da Sineglossa e Riverrum Hub ed edita da Ediciclo Editore, in collaborazione per questo volume con l’associazione C.A.S.A. – Cosa Accade Se Abitiamo – accoglie il viaggiatore e lo accompagna in un’intima esplorazione post-sismica del territorio.

La prima parte del libro intitolata “Vivere Qui” è dedicata a 8 percorsi e raccoglie le testimonianze degli abitanti nel loro senso di appartenenza e valorizzazione del territorio. La seconda parte “Dalla valle alle vette” è divisa in quattro sezioni e racconta l’ascesa, in un percorso quasi di catarsi, da fondovalle al Monte Bove, vetta simbolo del territorio, che si erge alle spalle di questa comunità appartente alla parte settentrionale della catena dei Sibillini.

“Cosa differenzia un turista da un viaggiatore? Il viaggiatore domanda, osserva, segue le deviazioni che la sua sensibilità gli suggerisce durante il cammino: è per lui che sono pensate le guide NONTURISMO”.

Una collana finalizzata a promuovere una nuova idea di turismo della marginalità, per dare nuova linfa vitale alle radici di una comunità, intesa come parte integrante del suo stesso patrimonio; un racconto corale realizzato con un processo di analisi per preservare la propria memoria e allo stesso tempo contruire insieme ai viaggiatori una nuova immagine identitaria. Ogni volume ha un taglio unico e incarna lo spirito autentico di un territorio narrato e tradotto da artisti residenti temporanei e realtà locali.

A condurre il lettore in questa esperienza interessanti anche i numerosi contenuti multimediali disponibili nell’app Loquis– il mondo ti parla, fai parlare il mondo.

Una guida davvero fuori dai percorsi tradizionali, come piace a noi dove «La gente di un posto mica si orienta con le mappe. Si orienta con le storie» (Wu Ming 3).

di Samyra Musleh
illustrazione di Giacomo Giovannetti

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L’arcipelago di Stoccolma – Svezia

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Una giornata per visitare Stoccolma, e cosa fai?
Dopo aver lasciato lo zaino con i vestiti all’ostello, con macchina fotografica in mano mi addentro subito nei vicoli della vecchia città, il quartiere di Gamla stan. Fa freddo per essere una giornata di fine agosto, ma tra gli antichi palazzi, le vecchie botteghe e gli artisti di strada, un motivo per andare avanti lo trovo subito.

Con la musica nelle orecchie e la macchina fotografica come compagna, cammino sui tanti moli di Stoccolma, tra le piccole barche attraccate, i coloratissimi ponti che uniscono le isole centrali della città, e i tanti traghetti che vanno e vengono come autobus su una strada fatta di acqua. Dopo aver preso un succo di frutta mi siedo e inizio a programmare il mio lungo viaggio che parte da Stoccolma, in direzione Gällnö, la mia prima isola del grande e meraviglioso arcipelago di Stoccolma.

Gällnö, con le sue case rosse, i vialetti fatti di sassi bianchi e le strade da percorrere solo a piedi, mi accoglie con un piccolo negozio aperto solo qualche ora al giorno con il minimo indispensabile per mangiare, un molo con un paio di barche ormeggiate, e un ostello con una casetta rossa come stanza e un secchio nero come unico bagno (è tutto molto bello, fino a quando non devi usarlo davvero…).
In questo arcipelago, formato da ventiquattromila isole, l’unico modo per spostarsi, come puoi immaginare, è via mare. Ma i traghetti hanno i loro orari, e non coprono tutta la zona. Su molte di queste isole, legate a qualche albero in riva a moli improvvisati, trovi delle barche a remi, con le quali puoi attraversare le insenature del mare e ritrovarti sulla sponda di un’altra isola.

C’è una sensazione di libertà in tutto questo, un contatto con la natura molto forte, e impari a sviluppare piano piano uno spirito di adattamento che ti insegna ad apprezzare il valore del tempo che scorre.
Il resto del viaggio è un continuo spostarsi, da Stavsnäs dove faccio un po’ di scorta di cibo e mangio un hamburger con patatine fritte che dopo due giorni di fagioli e tonno in scatola sembra la cosa più buona mai mangiata, fino ad arrivare a Sandhamn, punto di coincidenza per Nämdö, un’isola praticamente deserta dove scopro per la prima volta il piacere di usare un kayak (perché non l’ho mai fatto prima?).
L’arcipelago di Stoccolma è questo, ma molte altre cose. Sono i tramonti all’orizzonte, il mare così piatto da far riflettere le stelle di notte, il suono di un battello in arrivo, le camminate all’ombra di verdi pini, le barche a remi, il silenzio, un alito di vento, un libro da leggere e il tempo che passa ma mai perso.

Foto, video e testi di Marco Barretta

Testi e foto Marco Barretta

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Due giorni sul Lago di Como

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Ad un passo da Milano, precisamente a circa un’ora di auto dal centro città, c’è uno dei laghi più belli e famosi d’Italia: il Lago di Como!
Questa gita inizia proprio così, con un’auto noleggiata all’ultimo momento, un piccolo trolley e buona compagnia. Mi sono quindi ritrovato verso l’ora del tramonto ad Abbadia Lariana, uno dei comuni che affacciano sul Lago di Como, tra piccole spiagge, ruscelli e un bar gestito da simpatici sardi.

Febbraio è “fuori stagione” un po’ ovunque, ma potrebbe essere il motivo giusto per vivere nuovi luoghi.Ed è così che sono a Varenna, con la famosa Passeggiata degli Innamorati che mi guida fino al porto dei traghetti che collegano le sponde del Lago di Como. La mia destinazione è Bellagio, con le sue stradine lastricate, i ristoranti e gli hotel di lusso. È deserta in questi giorni, e non sarà il soggetto del mio racconto fotografico. L’esperienza più bella che ho fatto è proprio quella di prendere uno dei traghetti (9 euro andata e ritorno) che mi ha fatto sentire un po’ in uno di quei fiordi del nord Europa, tra il freddo pungente e il suono dell’acqua spezzata dalla nave.
In due giorni non aspettatevi di vedere tante cose, anzi, godetevi alcuni luoghi che sanno di vera natura, lontani dall’urbanizzazione un po’ aggressiva delle sponde del lago.

Nei piccoli paesini valgono una menzione sicuramente l’Orrido di Nesso e l’Orrido di Bellano (quest’ultimo a pagamento), e il Faro Voltiano, arroccato all’ombra del Monte Boletto che domina buona parte di quel ramo del Lago di Como.
Ci sono tante montagne (siamo nelle Prealpi ormai), sentieri e boschi, che riescono a colmare quella voglia di pace che i centri abitati non riescono a regalarci. Uno dei luoghi che vi consiglio di visitare è il Belvedere Parco Valentino sui Piani Resinelli. Un sentiero di circa quaranta minuti vi porterà su una delle più belle vedute del Lago di Como.

Testi e foto Marco Barretta

 

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Escursione sul Monte Venere

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Il Monte Venere è un leggendario cono vulcanico che un tempo è stato un’isola. Appartenente ai monti Cimini, in provincia di Viterbo, si trova nel comune di Caprarola e dal 1999 è una zona di protezione speciale. Condotti da Davide Nasi di SoundTrek abbiamo mosso i nostri passi su queste tre cime sopra le sponde del lago di Vico, specchio d’acqua che ospita una grande biodiversità animale e vegetale, insieme ad un progetto di conservazione per la tutela del falco Lanario.

Tra i resti di attività vulcaniche e morbidi saliscendi nel bosco fino alle sponde del lago, ci siamo imbattuti anche nella più grande cavità naturale di origine vulcanica del Lazio: il Pozzo del Diavolo.

Un’escursione tra faggete depresse, noccioleti (quelli della Ferrero) e querceti, insieme ad un’avifauna goduta da un ottimo punto di osservazione per il il birdwatching, dove abbiamo avuto modo di ammirare anche il rarissimo falco di palude.

di Samyra Musleh

Foto di Valentina di Miccoli

📍Percorso di difficoltà medio/facile (TE) di 13 km e 500 metri di dislivello.

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Ceilidh scozzesi sull’isola di Lismore

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Hebridean Session

Seduti in cerchio aspettiamo che Garret attacchi con il flauto traverso. Laura, una giovane ragazza che da poco si è trasferita sull’isola, accorda la chitarra seguendo le istruzioni dell’uomo. Poi, con una nota acuta del flauto, entrambi iniziano a suonare. Ava, da buona padrona di casa, incita tutti a partecipare distribuendo tamburelli, sonagli, nacchere e maracas che estrae da una grande cesta. Poi si mette al pianoforte e accompagna la melodia acuta del flauto. Come in un crescendo, il frastuono aumenta ad ogni pezzo, di pari passo con lo svuotarsi delle bottiglie sul tavolo. Garret posa il flauto e si prepara a cantare. Sotto le note del piano e il nostro pesante battito di mani a tenere il tempo, inizia con una vecchia canzone scozzese alla quale tutti si uniscono per il ritornello. Poi si continua con canti irlandesi e melodie gaeliche delle quali solo Garret riesce a pronunciare il testo.

Ero arrivato sull’isola di Lismore pochi giorni prima. Partendo dal mio appartamento di Edimburgo, mi ero diretto a nord verso la Scozia dei grandi spazi per un’escursione attraverso il paese. Avevo trascorso giorni in completa solitudine camminando tra i sentieri e i pascoli delle Highlands, seguendo a spezzoni la via della West Highland Way, che collega con 154 km di verde l’industriale Glasgow al nord rurale del paese. Evitando accuratamente ogni campeggio, passavo le notti nei boschi o in riva a un lago a combattere con il vento e gli sciami di zanzare. Poi, quando finalmente si riusciva ad accendere un fuoco, tutto si calmava, le zanzare sparivano e si potevano mettere i vestiti ad asciugare e le lenticchie rosse sul fuoco. Di tanto in tanto si incontrava un villaggio, si facevano provviste e si scambiavano due parole con gli altri escursionisti, comparando l’attrezzatura e i chilometri macinati a giornata. Poco prima dell’ultima tappa mi ero lasciato la traccia alle spalle e diretto verso la costa occidentale dove si estende l’arcipelago delle Ebridi Interne, o Inner Hebrids, di cui l’isola di Lismore fa parte.

Lismore

Quando contattai Rory e Ava per passare un paio di settimane sull’isola, offrendomi di ripagarli dando una mano nella proprietà, mi raccontarono degli artisti del posto, e di come l’isola fosse rimasta praticamente intoccata per anni. Lismore conta poco meno di 200 abitanti. Molti di questi, se non la quasi totalità, sono famiglie o giovani che hanno lasciato grandi città in cerca di una vita più lenta a contatto con la natura. Con solo 3 edifici pubblici sull’isola, rispettivamente: una scuola, un bar e un piccolo negozio di alimentari, Lismore riesce benissimo nell’intento. La piccola striscia di terra è attraversata da nord a sud da una sola strada asfaltata. La scarsità di infrastrutture è probabilmente una delle ragioni che l’ha fatta scampare al turismo di massa che da anni ormai brulica nell’arcipelago, lasciando intoccata la sua bellezza selvaggia.

Poco dopo essere arrivato sull’isola, Rory e Ava si sono mobilitati per chiamare qualche amico e organizzare una Ceilidh. Rory è un uomo lungo e magro sulla cinquantina che veste sempre con abiti da lavoro. Parla con calma e nell’accento si percepiscono le sue origini inglesi. Nella pausa tra un pezzo e l’altro, mi spiega che ceilidh è il termine gaelico per incontro, tradotto in inglese con “gathering”. Spesso, nelle zone più a sud e popolate del paese, viene inteso unicamente come ballo tradizionale scozzese, quando invece il termine racchiude molto di più. “È l’usanza centenaria dei popoli celti di trovarsi a casa di qualcuno, o in un pub, e passare la notte insieme. Spesso, facendo musica o raccontando storie; ma sono in realtà le persone il centro delle ceilidh, la musica è un pretesto,” mi spiega Rory.

La serata si protrae fino a tarda notte. Garret è completamente rosso in volto. Il flauto l’ha posato da qualche ora e ormai si limita a cantare con gli altri. Ci si scambia ancora qualche chicchera, e infine ci si saluta accordandosi per il consueto bagno mattutino.

La musica dell’isola

Camminando attraverso la grande proprietà della coppia, Laura mi racconta di come da circa un anno abita con Rory e Ava. Dal nord dell’Inghilterra, era venuta sull’isola con l’intenzione di prendersi una pausa dalla vita in città. Poi, semplicemente, non se n’è più andata. Con l’aiuto di alcuni amici, hanno sistemato un vecchio van verde parcheggiato da anni nel garage, hanno aggiunto una piccola stufetta in ghisa e l’hanno piazzato in mezzo al verde ai limiti della proprietà. È lì che dorme e fa musica, dice. Ma la maggior parte della giornata la passa fuori, divisa tra impegni di lavoro e lunghe camminate. Passiamo davanti l’ampio orto della coppia. Laura mi mostra le patate appena piantate e i letti di fiori commestibili. Tutto nell’orto ha una funzione e un posto ben preciso, la menta allontana gli insetti, l’alga locale arricchisce il suolo e le piante di fagioli fanno da supporto per le altre piante. Passiamo oltre il polytunnel e ad una piccola capanna in legno straripante di strumentazione audio. Laura, mostrandomela, si scusa per il disordine. Da quando ha iniziato a registrare il suo album, passa diverse notte lì, mi confida.
“Prima di venire a Lismore non sapevo suonare nessuno strumento. Ho iniziato guardando gli altri, e pian piano ho preso familiarità con la chitarra. A distanza di un anno, con l‘aiuto di Rory, ho finalmente iniziato a registrare le mie prime canzoni.”

Parlando con Laura è difficile non notare il rapporto speciale che tutti sull’isola sembrano avere con la musica e l’arte. È come se fossero maggiormente in contatto con il loro lato creativo, forse anche complice l’abbondanza di tempo libero e la scarsità di altre distrazioni. La musica, in particolare, sembra permeare ogni aspetto dalla vita sociale di Lismore, come se fosse un tassello essenziale che lega insieme la piccola comunità. Dove c’è un gruppo di persone, spesso compare anche uno strumento, e quando manca, non passa molto tempo prima che qualcuno corra frettolosamente a casa a recuperare una chitarra o delle percussioni.

Wild Swimming

Dopo una breve camminata attraverso un pascolo che pare estendersi per tutta l’isola, arriviamo in una baia riparata dal vento. La spiaggia di ciottoli rotondissimi è ricoperta da uno spesso strato di alghe porose. Le riconosco, sono le stesse che avevo visto su al nord durante una visita alla ventosa isola di Raasay, dove un’anziana del posto mi aveva raccontato di come le raccoglieva fresche per farci un’insalata con le verdure dell’orto.

Laura mi dice di non pensarci troppo. Tuffarsi è a sua detta il modo migliore per evitare codardie dell’ultimo minuto. Poco dopo nuota già al largo verso l’altro lato della baia. Lasciato solo con l’acqua all’altezza delle ginocchia, cerco di avanzare timidamente in acqua. Dalla baia, pare che sull’intera isola non vi sia un solo albero, nient’altro che coste rocciose che cadono a strapiombo nel mare. Guardo fisso davanti a me, scrutando all’orizzonte i colli dell’isola di Mull, meta ambita dai turisti inglesi e per la quale chiunque sull’isola pare avere una battuta pronta.

Sono immobile con l’acqua alla vita, quando Garret, che abita a due passi da noi e la cui casa dobbiamo attraversare ogni volta che si prende la macchina, ci raggiunge. Si sposta per l’isola su una mountain bike elettrica, mezzo prediletto per radunare le pecore e tenere il passo del fedele cane pastore. Indossa pantaloncini e maglietta maniche corte, nonostante la temperatura non superi i 15 gradi. Vedendomi in difficoltà, non si fa perdere l’occasione per prendermi un po’ in giro, poi chiede se andiamo al barbecue organizzato da alcuni amici e, in caso, se si deve portare i flauti appresso. Garret suona ogni tipo di flauto che possa accompagnare una chitarra o un banjo. Quello traverso e il flauto corto irlandese sono le sua prima scelta. Suona con la passione e l’impegno di chi di musica ci vive, nonostante non sia mai stata la sua professione principale. Lui, almeno in questa vita, è pastore. Di quella precedente, da giovane trentenne in qualche ufficio di Glasgow, non parla molto volentieri. Quando salta fuori l’argomento, lo liquida in fretta, dicendo quanto sia felice di vivere da pastore, uno vicino alla pensione, per di più.

Prendo infine confidenza con l’acqua e raggiungo l’altra sponda. I fondali, fatti di rocce e alghe coloratissime, sono perfettamente visibili senza nemmeno immergere la testa. L’acqua è di un colore vivo, trasparente, che a tratti riflette il verde impenetrabile dell’isola. La spiaggia di fronte inizia a scomparire dietro una leggere nebbia, dalla quale spuntano grossi scogli e alcune carcasse di pecora portate a riva dalla corrente. Uscendo dall’acqua tutto il mio corpo pizzica come una caramella frizzante. Mi sento elettrico e ho la testa leggera. Poco dopo, i muscoli si rilassano, lasciandomi una sensazione di quiete. Ci asciughiamo e torniamo a piedi scalzi a recuperare i vestiti sul lato opposto della baia.

Rocket oven

Aiuto Rory a costruire un forno in argilla per alimentare una vasca d’acqua calda in giardino. Si tratta di un’ingegnosa costruzione allungata, che ricorda un missile per l’appunto, spesso usata come fonte di riscaldamento in eco edilizia. Accendendo un piccolo fuoco all’estremità, il fumo che si crea viene incanalato nella lunga struttura trasferendo calore nei muri o, come in questo caso, a una vecchia tinozza da bagno.
Durante le giornate di lavoro, mi racconta di come la famiglia di Ava veniva sull’isola fin da quando lei era bambina. Dopo essersi sposati, hanno iniziato a venire insieme per le vacanze, fino a quando sono riusciti ad acquistare un terreno. Negli anni, hanno ospitato decine di volontari, è grazie a loro che sono riusciti a costruire la casa dei loro sogni, mi confida. Rory è un abile carpentiere, una di quelle persone che riesce a costruire praticamente ogni cosa usando gli scarti trovati in garage. La sua vera passione, a suo dire, rimane però la musica. Non è interessato a farla diventare un lavoro, quello che vuole è passare la maggior parte del suo tempo a suonare e scrivere nuovi pezzi. Tutti i fine settimana, si incontra con un un vecchio signore dalla barba bianca nel retro del garage. I due passano ore e ore a scrivere e a suonare, senza mai lasciare nessuno assistere alle loro sessioni private. L’uomo in questione mi dicono essere un poeta, un po’ schivo e spesso scambiato per un eremita. Nessuno lo ha mai visto sul traghetto per la città, e pare abbia scritto centinai di canzoni che si rifiuta di far sentire ad anima viva.

“Molti dei ragazzi che ospitiamo finiscono per fermarsi. La vita qui costa poco, ed è facile trovare diverse mansioni da svolgere per la nostra piccola comunità, pur rimanendo con molto tempo a disposizione da spendere in qualsiasi progetto si voglia,” mi spiega Rory. “Grazie a internet poi, le possibilità sono infinite.”

Barbecue

Incontro alcuni di questi ragazzi che hanno scelto di rimanere sull’isola durante il barbecue organizzato da Gonzalo e Giul. I due, lui messicano lei tedesca, si sono incontrati proprio a Lismore mentre viaggiavano attraverso il paese. Gonzalo è un tipo alla mano, felice di parlare con qualcuno con cui condivide un accento simile. Mi racconta del suo viaggio in Europa, del periodo passato in Svezia e di come, un po’ per caso, si sia innamorato dell’isola.

“È una piccola realtà quasi unica nel suo genere,” dice mentre gira gli hamburger e le salsicce vegetariane sulla griglia. “Il traghetto impiega soltanto un’ora per raggiungere la città più vicina, eppure l’isola è quasi priva di turismo e ovunque regna una certa atmosfera da comunità indipendente.”

Da quando sono qui, non ho sentito nessuno parlare di politica o dei problemi del governo centrale di Londra. Qui, si ha la sensazione che certe cose vengano lasciate alla fermata del traghetto. Regna una sorta di mentalità di autoregolazione, di distacco – fisico e sociale – dal paese. Quando occasionalmente una pattuglia si imbarca per una visita di routine dell’isola, i portuali fanno girare la notizia, che si sparge ben prima che la pattuglia abbia anche solo la possibilità di sbarcare.

“Sono i piccoli privilegi di abitare in un posto tanto isolato.” Mi racconta Isla, scultrice canadese trasferitasi in Scozia da qualche anno. Lei e il fidanzato Finn abitavano a Glasgow, ma il lockdown del 2020 li ha spinti ad allontanarsi dalla città e venire sull’isola. La coppia è giovanissima, Finn deve avere meno di venticinque anni. Lui è appena tornato da un breve tour promozionale. Dice di essere affaticato, di non essere più abituato al frastuono delle automobili e al dover divincolarsi tra mille impegni. “Se non fosse per il violino” dice, “non tornerei in mainland molto spesso.” Mi dicono che qui si sono trovati subito a casa, adattarsi alla vita sull’isola gli è venuto quasi naturale.

“Sono rimasta molto sorpresa del calore e l’accoglienza che ci hanno riservato quando siamo arrivati dalla città.” dice Isla. “Erano tutti entusiasti di vedere i miei lavori, e qualcuno mi ha anche commissionato delle sculture. Ora sto progettando un’istallazione tra le rovine dell’isola, è il mio modo per ringraziare questo posto.”

Isla parla con ammirazione dei paesaggi scozzesi che l’hanno portata tanto lontano da casa, dei tramonti nordici che fanno brillare il cielo dopo una lunga giornata grigia. Forse è questo il segreto dietro la creatività di questo luogo, la sua bellezza privata, l’inaccessibilità e la difficoltà che comporta l’abitare qui chiama l’uomo alla testimonianza. Come in antiche civiltà tribali, tutti sono fondamentali in piccoli centri, e sopratutto, non esistono estranei. In questo contesto il proprio lavoro creativo, o diletto, emerge senza fatica o vergogna, come se fosse un palco privo di giudizio, usato solamente per condividere una parte di sé.

La pantera

Il sole sta calado oltre la riva. Il giardino di Gonzalo si trova ad appena 100 metri dalla costa. L’appezzamento di terra è in comune con gli altri proprietari della schiera di cottage bianchi di cui la casa della coppia fa parte. I vicini non ci sono, vengono poco, solo qualche settimana in agosto. Così gli lasciano volentieri la manutenzione del giardino, in cui Gonzalo ha piantato un piccolo orto. Si è abbassato il vento e le terribili midges, minuscole zanzare nordiche che si muovono in sciami, iniziano a pungerci senza lasciarci scampo. Dobbiamo sgomberare tutto in gran fretta e ripararci in casa.

Qualcuno nell’angolo strimpella piano una chitarra. Garret, un po’ deluso, ha lasciato il flauto dentro la custodia. Seduti intorno al tavolo, mi vengono raccontate alcune storie popolari dell’isola. Quella più discussa involve un felino grande come una pantera, che da qualche anno si aggira misteriosamente per il nord del paese divorando pecore e facendo uscire di strada guidatori colti di sorpresa. Qualcuno sostiene essere un antico animale presente nel folklore scozzese, altri dicono che sia il risultato di animali in cattività rilasciati illegalmente nel corso degli anni. Finn certo non ha dubbi sulla sua esistenza, sostiene di averne visto uno durante un tragitto in macchina nel nord est del paese, che passandogli davanti lo ha costretto a fermare l’auto. L’unico felino selvatico ufficialmente presente nel nord della Scozia è il gatto selvatico, è di piccole dimensioni e ormai quasi completamente scomparso. Eppure, lì nella sera di un’isola intoccata da centinaia di anni, anche un enorme felino preistorico sembra plausibile. D’improvviso i testi di vecchie canzoni che continuano a citare e le storie della tradizione diventano più reali di qualsiasi logica. Così senza troppe domande, continuo ad ascoltare di boschi e di colline, di bestie e musicisti viaggiatori, di storie e canzoni che animano ogni anfratto nascosto del paese.

di Enrico Belcore

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Giro in drone al Parco giardino Sigurtà

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È tempo di primavera, dei fiori che sbocciano, della natura che si rinnova, dei weekend all’aria aperta! Voglio raccontarvi di una giornata passata al Parco giardino Sigurtà, 60 ettari di parco naturalistico che si trovano a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona.
Il parco mi ha ospitato per una intera giornata, ho avuto la possibilità di far volare il mio drone, passeggiare tra i grandissimi e verdi tappeti erbosi, e perdermi nel labirinto di siepi tra profumi e colori.
Ovviamente aprile e maggio, ma anche settembre, sono i mesi migliori per visitare questa bellissima oasi ad un passo dal Lago di Garda. E tra tulipani, piante officinali, una grande quercia e il viale delle rose, sono sicuro che questo sia uno dei posti perfetti per inaugurare la primavera.

uomo con drone al parco labirinto di siepe panoramica parco urbano ingresso portone nei giardini di Sigurtà giardini di Sigurtà donna in bici nel parco giardini di Sigurtà fiori acquatici del parco ponticello in laghetto artificiale

Testi e foto di Marco Barretta

 

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